Il Finale del Crepuscolo degli dèi come parafrasi del destino della Terra

Il periodo in cui Wagner stende il poema del Ring, sia nel suo abbozzo che nella sua forma definitiva, sono gli anni nei quali le tecnologie cominciano il loro processo di saccheggio delle risolse naturali della Terra e al contempo ha inizio lo sfruttamento sistematico della fatica umana che, accompagnato da condizioni di vita che più che essere definite inumane, possono essere ben chiamate subumane, mostra la faccia più atroce della coesistenza degli esseri viventi su questo pianeta, che, invece che fondata sull’amore, sulla condivisione e l’empatia, basa il proprio sistema di rapporti sulla prevaricazione e sulla sopraffazione del più debole in un rapporto di forze viziato da antichi e nuovi privilegi. Un rapporto talmente squilibrato da fornire, per illuminato contrasto, alla mente del filosofo Arthur Schopenhauer la seguente immagine di perfetto, quanto orrendo, equilibrio, espressa con le seguenti parole: «Se ponessimo sul piatto di una bilancia tutto il dolore del mondo e sull’altro piatto tutta la colpa, l’ago resterebbe in perfetto equilibrio».

Volendo trasferire il concetto di sfruttamento intensivo e sistematico delle risorse naturali, si può passare dal racconto delle condizioni degli esseri umani, fatti oggetto di orrendo mercato, al racconto dello sfruttamento, sempre più intensivo, di quelle risorse che, pur non essendo direttamente pertinenti alla fatica umana, venivano, sempre più sparmodicamente saccheggiate all’ignara e, ancora inconsapevolmente generosa, Madre Terra.

Cercando di riassumere brevemente quanto sopra riportato.

Una sostanza pura e naturale viene strappata dalle profondità e abusata, diviene l’oggetto di una travolgente bramosia di potere. Una bramosia che distrugge non solo l’essere vivente, ma la Natura stessa che, come ci ricorda Emil Cioran, permettendo l’apparizione dell’uomo ha perpetrato un vero e proprio attentato a sé stessa.

Dunque, l’uomo, questo Schwarz Alberich, dannoso più delle piaghe d’Egitto, ruba e saccheggia un comune patrimonio di ricchezza per accrescere a dismisura un potere che, senza possibilità di interruzione del ciclo, gli consenta di accumulare ulteriore potere e nuova ricchezza.

Così, sarà l’incontro dell’acqua col fuoco, quello che ha dato origine alla prima forma di vita, che demarcherà, quella sorta di ciclo palingenetico descritto dal Ring. E non solo nella sua forma anulare.

In esso, gli esseri che dovranno dare vita ad un nuovo mondo, sono già presenti e possono prendere coscienza di quanto accaduto, per poter riflettere sul loro futuro. A questi sarà concessa una forma di salvezza, solo se nei loro cuori sarà sentita con forza l’esigenza di fare ammenda della violenza perpetrata sull’ordine naturale delle cose. A loro sarà anche permesso di guarire le ferite inferte alla Terra e agli umani, usando la stessa arma che le ha provocate, ma con animo rinovellato e pieno di quella compassione che sola ci può rendere partecipi della sofferenza attorno a noi.

Come uno specchio, allora, rifletteremo il mondo attorno a noi, facendolo nostro e assorbendone sia ciò che è estasiante bellezza, sia ciò che è orrenda bruttezza.

In questa direzione, e solo in questa, si potrà credere, ancor prima della venuta di Parsifal, ad un sublime tentativo di atto redentivo dell’umanità attuato dalla sublime eroina Brunilde.

Non è certamente un caso che, nelle trentacinque battute finali del Crepuscolo degli dei, i due Leimotive, quello delle Figlie del Reno, immerso nell’acqueo ondeggiare degli archi gravi, e quello del Walhall, avvolto dal rosseggiante ardore degli ottoni, contrappongano i due elementi cardine del Femminino e del potere patriarcale. In quest’ultima fase nella quale i due principi empedoclei si fronteggiano, unendosi poi in un afflato tanto distruttivo, quanto fu creativo quello del principio del mondo mitico del Prologo, nel quale le due sorgenti, di acqua fredda di Hvergelmir e di acqua ribollente del Muspellheim, unendosi hanno generato le prime forme di vita.

Ma ecco che, attraverso il bagliore del fuoco purificatore e delle acque mondanti che straripano, s’innalza puro e sublime, ai violini e ai flauti, il motivo, dolce ed intenso della Glorificazione di Brunilde o, come più genericamente viene definito, della Redenzione d’amore.

Ancora nel 1952, cent’anni dopo la creazione del poema del Ring, Theodor W. Adorno condivideva, nella sua essenza, la visione di George Bernard Shaw, affermando che, se volessimo in poche parole esprimere l’idea fondamentale del Ring, dovremmo dire che in esso si condensa l’intero ciclo dell’essere umano che va dall’unione incondizionata con la Natura, da cui esso ha origine, passando attraverso la conquista e l’asservimento delle forze della Natura, fino a dover soccombere ad esse nel tragico ed espiatorio Finale.

Forse la visione di Wagner, sempre interessatissimo alle differenti etnie, religioni e filosofie, viene supportata nel modo più pregnante dalle parole di Russel Means, un nativo americano, che dice: «Tutta la tradizione europea ha cospirato per resistere all’ordine naturale delle cose. La Madre Terra è stata abusata, i suoi poteri sono stati abusati e questo non può continuare all’infinito. Nessuna teoria può cambiare questo semplice fatto. La Madre Terra reagirà, l’intero ambiente reagirà e i sopraffattori saranno eliminati. Tutto tornerà ciclicamente da dove è partito. Questa è la rivoluzione. E questa è la profezia del mio popolo, il popolo Hopi».[1]

[1] Fighting Words on the Future of the Earth, Mother Jones, Dec. 1980, p.44

Enden sah ich die Welt (Io ho visto il mondo finire).

Cari amici vi propongo la ricostruzione filmica della Meditazione musicale da me tenuta nel dicembre 2019 presso l’Associazione Wagneriana di Milano, di cui sono presidente.

Il titolo della Meditazione è stato preso dai versi finali con i quali Wagner concludeva il poema del Crepuscolo degli dèi nell’anno 1852. Tali versi non vennero poi musicati e furono sostituiti da altri.

I link, che rimandano a tale Meditazione sono due, in quanto la visione, che risulta essere lunga e coinvolgente, ha giovato della suddivisione in un paio di sezioni.

Tale meditazione, che, con l’ausilio della musica di Richard Wagner e di Gustav Mahler, tratta dell’esistenza umana, con i suoi dolori e le sue speranze, e di quella del pianeta su cui viviamo, spero vi giunga gradita e sia fonte di ulteriori Meditazioni.

Giorgio Tagliabue

Perché Wagner?

Richard Wagner - Wikipedia

Lettera aperta del Presidente dell’Associazione Wagneriana di Milano M° Giorgio Tagliabue

In un mondo nel quale la bramosia di potere e di ricchezza dell’uomo sta mettendo a repentaglio l’intero ecosistema e la sopravvivenza stessa di molte specie animali, tra cui quella a cui esso stesso appartiene, una voce profonda ed imperiosa si leva nel mondo dell’arte, per lanciare, attraverso un sommo ed inarrivabile capolavoro artistico, un monito all’intero genere umano perché, rivedendo completamente il proprio ruolo, il proprio impegno e il proprio destino, ripensi al proprio passato, rifletta sul suo futuro e agisca per il suo presente.

L’Anello del Nibelungo di Richard Wagner, una delle più grandi creazioni artistiche e filosofiche che mai genio poetico e musicale abbia realizzato, è un’epica grandiosa che, sfruttando il medium mitologico, fruga nei nostri archetipi primordiali, portando alla luce quella memoria collettiva nella quale albergano le più profonde contraddizioni, i sottili malesseri e gli strazianti dolori che condizionano la nostra esistenza. Il Ring ci spinge negli oscuri recessi del nostro spirito e ci costringe a guardarci in una sorta di specchio nel quale la nostra reale immagine appare dolorosamente veritiera, al posto di quella falsa e deformante che un’effimera società del benessere ci impone quotidianamente come modello esistenziale.

È lecito domandarsi perché un’opera che narra di un’epica tanto lontana e, così atemporale da poter essere collocata in ogni tempo e luogo, popolata di dèi, di giganteschi e rozzi manovali, di nani lascivi e bugiardi, di matrone frustrate e incollerite, di cavalli volanti, di vergini selvagge che raccolgono gli eroi morti in battaglia, di sagge e sapienti dormienti, di eroici incoscienti, di figlie ribelli, di magiche spade, di potenti lance, di fanciulle barattate, di scaltri intriganti, di eroi distintisi in battaglia, di draghi, di tessitrici del destino e di giovani ondine che trascorrono il loro tempo rincorrendosi gioiose, attorno ad un biondo e luccicante feticcio aureo che, dai flutti del fiume Reno, irradia luce sul mondo, debba presentarsi come una delle più grandi realizzazioni del genio umano?

Perché un’allegoria così trascendentemente tragica, così cosmicamente votata a quel pessimismo che, all’ombra della palese involuzione umana, ci appare come lucida e veggente consapevolezza, ci estasia e ci confonde, c’intenerisce e ci commuove, ci ammalia e ci strugge?

Una risposta sorge spontanea.

Richard Wagner è un poeta, un musicista, un filosofo e questo già basterebbe a fare di noi dei suoi estimatori.

Quando la sua voce, però, diviene quella di un profeta, quando essa si rivolge a noi parlandoci di noi stessi, quando la sua straordinaria musica diviene un profondissimo e laico sermone, che ci pone di fronte a quell’enorme specchio nel quale ci è concesso vedervi riflesso il mondo intero, con le sue tragiche e insanabili contraddizioni, ecco che Wagner diviene rivelazione.

Quando ci fa riascoltare l’eco della maledizione di Alberich, che grava su tutti noi che assaporiamo, assieme a Wotan, il gusto del potere e non intendiamo rinunciare all’anello che ce lo dona, quello è il momento nel quale la voce di Wagner risuona potente come un lacerante monito contro la prepotente barbarie che ci assedia e la sua opera diviene il potente antidoto del quale abbiamo bisogno, sia le vecchie che le nuove generazioni, per opporre un nostro personale rifiuto al lento e quotidiano avvelenamento col quale una civiltà del potere sta uccidendo il nostro spirito, prima ancora dei nostri corpi, e quel meraviglioso ambiente nel quale essi trovano unica e sola dimora.

M° Giorgio Tagliabue

L’Associazione Wagneriana di Milano da molti anni agisce per diffondere la musica, la poetica, il messaggio filosofico, sociale ed esistenziale di Richard Wagner, che è un messaggio di pace, di amore, di compassione, di rispetto e di fratellanza tra tutti gli esseri che condividono la loro esistenza su questo nostro pianeta.

L’Associazione Wagneriana di Milano attende di dare il benvenuto con gioia a tutti coloro che vorranno assistere e partecipare alle Conferenze, alle Proiezioni, ai Concerti e alle Meditazioni musicali che ogni primo mercoledì del mese, da Settembre a Giugno, alle ore 20 si tengono nella sala conferenze degli Amici del Loggione, via Silvio Pellico 6, a Milano.

Associazione Wagneriana di Milano – www.wagnerianamilano.org – info@wagnerianamilano.it

Non mi è facile trovare il modo giusto di iniziare e dunque lo farò nel modo più semplice e immediato, anche se forse non il più corretto.

Il questo mese di febbraio, invitato da un amico ad assistere ad un concerto nella mia città, Milano, ho avuto l’occasione di essere testimone all’ennesima “impostura” messa in atto da chi organizza i concerti ai danni di un pubblico “incapace di intendere e di volere” che inghiotte ogni cosa non sapendo fare distinzione tra lo sterco di jak e una torta St. Honoré.

Nel suddetto concerto, tenuto da quella che potrebbe essere una decorosissima orchestra, si sarebbe dovuto ascoltare il Requiem di Mozart e quello di Silvia Colasanti, dal titolo “Stringeranno nei pugni una cometa”.

Per quanto riguarda l’esecuzione del Requiem di Mozart, posso affermare senza ombra di dubbio che essa sia stata la peggiore mai ascoltata nella mia pur lunga vita.

Mi affretto, però, ad affermare che non ritengo responsabile di tale pessima esecuzione l’orchestra, bensì quel giovane francese che, pur essendo chiamato a far parte della (purtroppo) non più nobile categoria dei direttori d’orchestra (categoria alla quale sono appartenuti Carlos Kleiber, Leonard Bernstein, Herbert von Karajan, Wilhelm Furtwängler, Hans Knappertsbusch e altri), si è rivelato molto più che incapace di svolgere il compito affidatogli, bensì assolutamente e perniciosamente dannoso.

Personalmente non so, e non voglio sapere, in qual modo e da chi tali direttori d’orchestra vengano scelti, ma se dovessi immaginarmelo lo vedrei sotto le luci del tendone di un circo, mentre, al suono della banda, passano in rassegna i clown o, per usare un termine più nostrano, i pagliacci. Peccato che essi, posti ad assolvere compiti che non gli competono, non risultino per nulla divertenti, bensì profondamente ed irritantemente indisponenti.

Quello che ha tentato, nell’occasione di cui vi sto parlando, di dirigere l’orchestra nei due Requiem in programma, più che un direttore d’orchestra, sembrava un uccello a cui fosse rimasta impigliata una zampina in una trappola per topolini e che tentava in ogni modo di liberarsi per riprendere il volo e scapparsene lontano.

Devo dire che anch’io, vedendolo, mi agitavo non poco e avrei voluto scappare da quegl’istanti di artistico dolore.

Peccato che durante il suo goffo tentativo di liberarsi dalla trappola in cui si era venuto a trovare, il giovane francese avesse di fronte a sé un’orchestra e un coro che, a causa sua, mostravano i limiti di una concertazione e di una direzione alquanto infelice e lacunosa.

Il giovane rappresentante di quella strana arte circense, che si sbracciava come un invasato nel tentativo di entrare a far parte della categoria dei “circonductors”, mostrava apertamente di non avere acquisito alcuna base tecnica dell’arte direttoriale.

Per me, che ho dedicato gran parte della vita a tale arte, avendola appresa dai grandissimi e avendone approfondito la tecnica del completo dominio corporeo, la mistica del rapporto con lo spazio sonoro circostante e l’attenta e sincera ricostruzione spaziale della musica, un tale giovanotto dovrebbe prendere coscienza dei propri abissali limiti ed essere mandato ad impiegarsi in qualcosa di meno dannoso per l’umanità. Ammesso che vi possa riuscire.

Come ciliegina sulla squallida torta di ipocrisia musicale, lo pseudo-maestro ha voluto “misticheggiare gigionescamente”, dandosi arie da “guru del suono”, scimmiottando indecentemente, come oggi fa più d’uno, Claudio Abbado che, al termine di una Nona sinfonia di Mahler, tenne il pubblico in un mistico silenzio per oltre due minuti.

Evidentemente il giovane francese ha un ego talmente bulimico da ottundergli perfino la presa di coscienza dei suoi immensi ed invalicabili limiti.

È un vero peccato, perché continuando di questo passo, il pubblico italiano, facile preda di artistica confusione, vedrà scemare sempre più il livello qualitativo delle esecuzioni offertegli.

Concludo, poiché credo d’aver già sprecato troppi minuti del mio prezioso tempo, dicendo che quello di domenica è stato il terzo concerto al quale ho assistito con la medesima orchestra ed ho dovuto rendermi conto che il livello qualitativo dei direttori d’orchestra è, nel modo più assoluto, sotto il livello della decenza alla quale il rispetto di un pubblico, sia esso pagante o meno, dovrebbe essere assicurato, pena l’inarrestabile declino della qualità delle esecuzioni offerte alla gens italica.

Dimenticavo. Il Requiem della Colasanti che, al di là della direzione assai deficitaria, ho intuito essere assai dignitoso e pregno di intensa fascinazione sonora, mi è piaciuto, pur se il contenuto musicale in sé non fosse particolarmente ricco.

 

 

 

Bayreuth 1876 – Genesi di un mito

Nella sterminata e talvolta immotivata produzione letteraria contemporanea, complice della perniciosa distruzione di parte della flora terrestre, viene subito da chiedersi se, nel generale olocausto arboreo, il sacrificio di una parte di tali vittime sia giustificata da un altro libro su Wagner.

Mentre tento, in ambientalistica pienezza di cuore e levità di mente, di sottoporre ad un’onesta meditazione il dilemma che, come autore del presente libro, mi attanaglia, rievoco i motivi che mi hanno indotto al lavoro, prettamente cronachistico, col quale ho riempito il mezzo migliaio di pagine che faranno seguito alla mia introduzione.

Potrei dire che, anche nel mio caso come in quello degl’infelici e danteschi Paolo e Francesca, “galeotto fu il libro e chi lo scrisse”, in quanto mi era accaduto di rimanere letteralmente affascinato dalla lettura delle memorie di Lilli Lehmann, la mitica soprano, interprete del personaggio di Woglinde nella prima rappresentazione del Ring a Bayreuth nel 1876, nelle quali la cantante raccontava della straordinaria esperienza umana e professionale da lei vissuta in quel periodo.

La bellezza e la genuina spontaneità del suo racconto mi avevano profon- damente colpito. Ma ancor più mi aveva coinvolto l’entusiasmo che quelle stesse pagine esalavano come un fluido incantatore e quel profondo senso di rispetto che da esse emanava per un uomo, unito alla devozione artistica che, in quello scritto, si evinceva chiaramente per l’opera di questi. Tale contagioso entusiasmo doveva, in prima istanza, spingermi ad un’azione che, a sua volta, avrebbe prodotto due considerazioni dalle fatali conseguenze.

L’azione, supportata dal suddetto entusiasmo, era quella di impegnarmi nella ricerca di altre testimonianze di coloro che avessero partecipato, in vario modo, a quel fondamentale evento artistico, che aveva avuto luogo in quella precisa porzione di mondo e in quello specifico scorcio di tempo.

La ricerca non si sarebbe rivelata semplicissima poiché alle varie testimo- nianze che via via rinvenivo, in molti casi, non era stata attribuita soverchia importanza, lasciando così che tali voci, provenienti dalle più disparate regioni della terra, venissero occultate dal velo di polvere che il tempo usa stendere, sia sulle parole, che sui loro autori.

Tutte le testimonianze che mi si andavano rivelando, condividevano anche una medesima paradossale quanto inaccettabile condizione: nessuna di esse era mai assurta alla dignità di riprender vita nell’italico idioma.

Questa doveva essere la prima delle fatali constatazioni.

Così, pian piano, come in un improvvisato convito, cominciavano a fare la loro apparizione, assieme a coloro che già da qualche tempo avevano preso posto alla mia tavola, come Lilli Lehmann, Heinrich Porges, Eduard Schuré, Eduard Hanslick, Richard Fricke e Carl Emil Doepler, fondamentali documentatori di quel periodo, anche un notevole numero di nuovi e improvvisati commensali, il cui nome mi era stato, fino a quel momento, perfettamente sconosciuto, come Julius Hey, Joseph Bennett, James William Davison, Wilhelm Marr, Gustav Engel, Karl Frenzel, Daniel Spitzer ed altri ancora, più una pletora di musicisti che, per mia fortuna, dopo la loro visita a Bayreuth si erano premurati di lasciare una breve o lunga memoria scritta della loro esperienza, vissuta, più che altro, al servizio della loro umanissima curiosità.

Una curiosità che li aveva spinti, dalle lande americane, irlandesi, inglesi, francesi, norvegesi, tedesche, italiane o russe, fino a Bayreuth per vedere ed ascoltare il risultato artistico di quella nuova concezione poetico–musicale, che un compositore, rivoluzionario a tempo determinato e visionario a tempo indeterminato, era stato in grado di concepire.

Orbene, proprio la constatazione dell’elevato numero di personaggi che si accalcavano per prender parte al convito, pur molto parcamente imbandito, mi andava sempre più convincendo di essere riuscito a richiamare, dai labirintici meandri del tempo, molti di coloro che erano stati presenti a Bayreuth in quei giorni e mi dava sempre più la certezza che una riunione così numerosa di testimoni di quell’evento non si fosse ancora mai verificata.

E questa si rivelava essere la seconda fatale considerazione.

Le due suddette constatazioni personali, supportate dal coinvolgente en- tusiasmo trasmessomi dalle loquaci testimonianze dei convenuti, alimentato vieppiù dal mio sincero interesse per le loro parole, unitesi in una piccola e gradevole congiura, si sono appropriati di un paio d’anni della mia inquieta esistenza per concedermi l’onore e la profonda emozione di potermi me- ritare, sia la condivisione della mensa di queste vivaci menti, sia un posto a sedere su degli scomodi sedili, fatti di un tormentante canniccio, in un auditorium scevro di orpelli, con un’acustica strana quanto affascinante, per assistere alla rappresentazione, umana, poetica ed artistica, dentro (ma an- che fuori) i luoghi deputati alla musica che, in quei giorni intensi e gloriosi come lo furono pochi altri nella storia dell’arte, si stava allestendo in una remota cittadina al centro della Germania.

Questo testo, dunque, si offre come un mosaico, le cui tessere, costituite dalle varie testimonianze dei partecipanti all’evento, cercano di ricomporre l’immagine, quanto più fedele possibile, di ciò che è accaduto in quei mesi dell’estate dei due anni  e , comprendendo, con particolare riguardo a quest’ultimo anno, anche tutte le reazioni, umane, professionali, cronachistiche, scandalistiche, trascinanti, ironiche, ridicolizzanti, intense, sofferte, gloriose e mai banali che l’evento di Bayreuth aveva scatenato nel mondo dell’arte nella sua globalità.

Il testo, nei limiti delle possibilità offerte da un’ipotetica traslazione temporale, consente di trasferirsi in quegli afosi giorni nei quali, al coraggio e all’entusiasmo di volonterosi pionieri, si contrapponevano una serie di difficoltà oggettive, che giungevano fino all’imposizione di drastici regimi alimentari, per l’oggettiva impossibilità di esaudire le richieste di cibo e bevande per tutti i convenuti a quella kermesse artistica, come testimoniato, per citare una voce tra le molte, da Piotr Ilic Tchaikovsky nelle sue lettere al fratello Modest.

Questo scritto si propone anche di fornire un elenco, senza la pretesa che esso sia completo ed esaustivo, dei molti presenti a Bayreuth in quei diciotto giorni, dal 13 al 30 agosto 1876, nei quali si ebbero le dodici rappresentazioni del Ring, fornendo di essi, laddove possibile, anche un brevissimo espunto caratterizzante che viene convogliato in un Indice analitico e in una corposa Appendice micro–biografica al termine del testo.

Personalmente, a seguito di questa breve, ma onesta, meditazione, credo che l’unica spinta ad acconsentire al sacrificio di una pur piccola parte della flora terrestre, immolata alla pubblicazione di questo mio scritto sia la speranza che esso possa costituire un ulteriore tassello per la comprensione di quanto accaduto in un luogo e in un tempo nel quale si è verificato uno dei più grandi sconvolgimenti tellurici nella storia dell’arte poetica, musicale e teatrale di tutti i tempi.

Il senso della vita in un verso

  Vi sono poesie che distillano, come in un  nucleo denso e compatto seppur fluido e leggero, tutto il senso della vita umana, con tutto il suo immenso fardello di sentimenti.

Quando, all’età di vent’anni, un individuo, di cui ho smarrito nome e fattezze nel lungo percorso esistenziale che mi separa da quei giorni, mi recitò questi brevi versi, il giovanotto scioccamente vanitoso e ampiamente ignorante che ero ne rimase completamente folgorato, e non solo per la loro intrinseca e classica bellezza o per la loro cullante musicalità.

No. Quei versi s’incisero nella mia mente come il viatico per un’intera vita.

Oggi, che da quei lontani giorni mi separano una decina di lustri, il senso dell’esistenza espresso dai versi di Savage Landor mi conquista e mi avvince ancor più di allora.

Anche il titolo del poema non è da considerarsi un semplice accessorio, come spesso accade nella letteratura poetica, bensì esso costituisce un’appendice aforistica, un’estensione e, al contempo, un’intensificazione del suo senso più profondo che, come sotto una lente d’ingrandimento, permette una focalizzazione sul nucleo significante della poesia.

Propongo a coloro che non lo conoscessero, questo breve poema e la mia traduzione letterale come omaggio a quell’oscuro individuo il cui luminoso ricordo porto da mezzo secolo nel cuore.

 

Dying Speech of an Old Philosopher

by Walter Savage Landor (1775-1864)

 

I strove with none, for none was worth my strife:

Nature I loved, and, next to Nature, Art:

I warm’d both hands before the fire of Life;

It sinks; and I am ready to depart.

 

Non ho combattuto con nessuno, perché nessuno era degno del mio sforzo:

Ho amato la Natura e, dopo la Natura, l’Arte:

Ho riscaldato entrambe le mani al fuoco della Vita;

Esso langue ed io sono pronto a partire.

(trad. Tagliabue)

L’ignoranza al potere o il potere agli ignoranti

211341078-578be7e9-b45d-4f9d-b442-13cb88af9ff7Anche l’ignoranza ha un prezzo. Nel caso di Stéphane Lissner il prezzo era di un milione di euro l’anno. Tanto era il costo che l’ignoranza dell’ex sovrintendente del Teatro alla Scala imponeva ai contribuenti.

Questo signore era, fino a pochi mesi fa, il massimo dirigente di uno dei teatri di tradizione più importanti del mondo. La logica dei miseri mortali (categoria a cui tutti noi apparteniamo) vorrebbe che un professionista di questo livello fosse anche un “super-competente” della materia a cui deve “sovrintendere”.

Invece, no. Questo sorridente signore francese, che dopo anni di permanenza in Italia parla ancora come l’ispettore Clouseau di Peter Sellers, è come un chirurgo che, non sapendo intervenire su un’unghia incarnita, venga nominato primario del reparto di chirurgia cardiaca di un ospedale. È come un ingegnere, posto a costuire viadotti dell’autostrada, che non conosca l’uso del cemento armato.

La sua ignoranza in materia musicale (ma c’immaginiamo che anche quella di altro genere sia oltremodo vasta) è testimoniata da un’intervista, rilasciata alla TV francese, nella quale alcune semplicissime domande vengono sottoposte al “grandissimo ignoratore”. Come risposta, l’incompetente pacioccone, sfoggia un’arroganza che, accoppiata ad una infruttuosa arrampicata sui vetri, ben si accompagna alla sua manifesta incapacità. Le arie d’opera sottoposte al riconoscimento, sono tra le più conosciute dell’intera letteratura melodrammatica mondiale.

Abbiamo, così, l’ennesima prova che nel nostro paese, incivile e corrotto fino al midollo, si premia la mediocrità e l’ignoranza. A voi il piacere di godervi l’osceno spettacolo della “Ignoranza al potere” o, se preferite, del “Potere agli ignoranti”.

A Claudio Abbado

Caro Maestro, quante inutili parole verranno scritte e quanto l’inutile suono di vane e ipocriti parole dovrà divenire il tuo viatico per questo nuovo, ultimo, definitivo viaggio. Oggi, molti di noi piangono. Ci sentiamo turbati, soli, poveri; il nostro spirito è incupito.

Altri, invece, diverranno i principali protagonisti della solita “ignobile farsa”. La “farsa italica” che, oramai per la maggior parte dei cittadini, è divenuta terribile tragedia. Arriverà il cordoglio delle Autorità. Gli uomini politici fingeranno di piangerti; mostreranno il loro ipocrita dolore.

Ti piangeranno coloro che hanno, con una volitività senza pari nel mondo, smantellato la maggior parte delle Istituzioni Orchestrali italiane, perché superflue e “improduttive”. Ti gratificheranno della loro falsa commozione anche quelli che hanno devastato la scuola italiana; di ogni ordine e grado, e di ogni tipologia d’insegnamento (compreso quello

musicale). Ti piangeranno anche coloro che, con perversa pertinacia, hanno disgregato ogni tipologia di “formazione culturale” in questo miserando Paese e le loro false lacrime si mescoleranno a quelle di coloro che, con colpevole incuria, hanno permesso che il nostro patrimonio storico crollasse, sotto il peso della loro inettitudine e a coloro che hanno lasciato che il nostro partimonio artistico marcisse nel fondo degli scantinati dei musei.
Vedrai piangere anche i Direttori artistici dei teatri, che sono impegnati a tempo pieno a cercare “professori d’orchestra” che lavorino a 40 euro al giorno. Piangeranno anche gli amministratori, che, per risparmiare, organizzano concerti con una sola prova, a detrimento della “qualità” delle esecuzioni. Ti piangeranno anche coloro che non riescono a capire la differenza tra il tuo “lavoro” e quello di tanti altri tuoi “colleghi” incapaci.

Ti piangerà anche Donna Moratti, che i novantamila alberi, per il tuo concerto, non li ha mai piantati, nella mia città piena di cemento. Forse, ti piangerà anche “l’homunculus arcorensis” a cui dobbiamo i colpi di maglio più potenti inferti all’arte, alla cultura, al pensiero, alla spiritualità, che mai siano stati sferrati nella nostra storia repubblicana.

Caro Maestro, forse in presenza di tanto “pattume umano” anche tu, come il Siegfried wagneriano, alzerai la tua mano per porre fine ai disgustosi suoni che le loro colpevoli bocche vorranno emettere. Solo allora potrai seguitare il tuo cammino verso il Nulla.
Il nostro cuore piange, ma tu va’ in pace, Maestro. Noi restiamo ancora un po’, ma ci sentiamo tanto soli.

Arte e Chaos

Vorrei dedicare queste poche righe a quella vile accozzaglia di imbellettati ignoranti, occupati a tempo pieno a condurre l’ “eutanasia” dei beni culturali e artistici di questo miserando Paese, perché dedichino una maggiore attenzione alle innumerevoli ricchezze di cui, nonostante il loro passaggio, questa nazione è ancora ricca.

Se interrompessero, per qualche istante, il famelico impegno con cui si dedicano a spolpare le ossa della carogna di questa povera nazione, anche a loro, potrebbe essere elargita, da una benevola e dimentica natura, la possibilità di evolversi dallo stadio di parassiti infestanti a quello di innocui batteri non patogeni. Queste orde vandaliche potrebbero così interrompere l’opera di razzia dei beni economici, culturali, artistici, paesaggisti, a cui si dedicano a tempo pieno, ormai da alcuni decenni.

Anche a loro, pur al livello cloacale in cui amano sguazzare, l’arte potrebbe fornire un momento di disvelamento della loro natura fecale e, attraverso di essa, condurli ad un nuovo livello di coscienza ed elevarli, in tal modo, al di sopra del liquame nel quale hanno costituito la loro dimora morale.

Wer die Schönheit angeschaut mit Augen,

ist dem Tode schon anheimgegeben.

Chi guarda la bellezza con gli occhi,

si è già consegnato alla morte.

[August von Platen, Tristan]

Dare forma al chaos. Accendere un bagliore di luce sul baratro a cui si affacciano i nostri spiriti solitari. Sprofondarci nello zaubertrauer; il lutto incantato, condizione della katharsis. Il magico dolore del disvelamento. L’aletheia che ci supera, che va oltre noi stessi.

Il suo modo d’essere specifico è «dare forma al chaos».

Cos’è una grande opera d’arte, un capolavoro? Qual’è il suo specifico modo d’essere? E ancora, qual’è il rapporto del soggetto compenetrato dall’opera d’arte?

L’essere è insieme Chaos e Cosmo. Per gli esseri umani il Chaos è in generale rappresentato dall’esistenza quotidiana.

La grande arte dà forma al caos. E mentre gli dà forma, lo disvela e nello stesso tempo, grazie a quella forma disvelata, crea un Cosmo.

Disvelamento del Caos; perché la grande arte lacera le evidenze quotidiane, il corso normale della vita.

Per chi ama e capisce la musica che ascolta o il dipinto che contempla, il tempo abituale e la quotidianità si spezzano, per sublimare i frammenti e ricomporli in nuovi formanti. È l’arte che opera il disvelamento per mezzo di quel dare forma che è la creazione di un Cosmo. Un Cosmo formato dai frammenti sublimati e ricomposti.

La vera opera d’arte non presenta mai esclusivamente sé stessa, ma un Cosmo dentro al Chaos.

La sola mimesis presente nell’arte è quella dell’essere in generale e, come l’essere, anche l’arte è vis formandi. C’è potenza creatrice, c’è capacità di dare forma, ma non è una mimesis specifica: la danza, l’architettura, la musica non imitano niente, bensì creano un mondo. La musica imitativa è palesemente la variante più mediocre della musica.

Quando Beethoven ha scritto la sinfonia “Pastorale”, si è premurato di precisare che “si trattava di esprimere un sentimento e non di fare della pittura”. Non si tratta quindi di ritrarre la pastoralità, ma il sentire panico dell’uomo immerso nella natura.

Si può allora affermare che la mimesis si operi sui sentimenti umani?

La musica fa esistere i sentimenti o, meglio ancora, dà loro una forma che non esiste altrove. Chi ha mai provato prima quello che sente ascoltando la Nona Sinfonia di Mahler? Questa sinfonia (è solo uno degli innumerevoli esempi che potrei fare) crea un sentimento assolutamente unico, che potremmo cercare, bene o male, di accostare, banalmente ma sinceramente, a quello che conosciamo, parlando di tristezza, di solitudine, di abbandono, di sconforto, di delusione, di senso della morte o di qualche altro misero equivalente semantico. Ma questo è un sentimento “creato” dalla musica stessa. Non ha equivalenti ai quali fare riferimento. Anche questo è dare forma al Chaos.

La grande letteratura, come la grande pittura, fa vedere qualcosa che c’era, che era lì ma che nessuno vedeva. Ecco aletheia, il disvelamento. Nello stesso tempo fa esistere ciò che non c’era e che esiste appunto solo in funzione di essa. Ecco la forma del chaos; il cosmo.

È vero per la pittura o la musica, ma anche per la danza, per la grande architettura. Pensiamo ad un romanzo come Il castello di Kafka. Nessuno di noi ha mai vissuto in un mondo come quello. Ma tutti l’abbiamo abitato, una volta che avremo letto il romanzo.

Disvelamento e forma. Chaos e Cosmo.

Prendiamo una fotografia, per esempio, che può essere dozzinale o bellissima. In questa forma di espressione artistica, che ha saputo raggiungere vette espressive altissime, si rivela con estrema evidenza la contrapposizione tra mimesis e katharsis. Certe fotografie sono grandi opere d’arte (esse, come le altre, frutto di un medesimo processo meccanico); altre (immagini turistiche, di gruppi familiari, di matrimoni, di feste) sono una sorta di mimesis; una copia, più o meno riuscita, di ciò che si trovava davanti all’obiettivo nell’istante dello scatto.

Sicuramente il fine della tragedia è la katharsis e non la mimesis. Ma, anche per le altre arti la katharsis è di fondamentale importanza.

Katharsis è un termine squisitamente medico. Sull’Index Aristotelicus di Bonitz si trovano due colonne sull’impiego del termine in un contesto medico e solo dieci righe sulla sua utilizzazione nella Poetica. La katharsis è la purga, l’eliminazione degli umori cattivi. Non è un caso, però, che Aristotele usi proprio questa parola per indicare “l’eliminazione” a cui lui si riferiva e che si opera attraverso i potenti stimoli di “pietà e terrore”, che sono evidentemente sentimenti.

Quali sono dunque gli umori di cui liberarsi? Sono tutte le passioni, si potrebbe dire le compassioni, dello spettatore mentre si svolge l’azione. C’è una certa distanza, che permette che la tragedia abbia il suo effetto, senza che ci sia “verfremdung”, straniamento, con buona pace di Bertold Brecht. Il susseguirsi in crescendo di terrore e pietà sfocia nella purificazione. Ora, la finalità della tragedia è appunto questa katharsis; la purificazione, l’epurazione delle passioni attraverso la pietà e il terrore. La mimesis, anche quando è presente, è un semplice mezzo.

La vera arte non è neppure fenomenica. Essa è trasparente; rimanda a qualcos’altro. Il fenomeno (o l’epi-fenomeno, come la musica) è l’elemento fisico, ma l’opera d’arte è ciò che si situa “al di là” del puro fenomeno. Ed è questo che determina la katharsis. La scarica. Lo svuotamento (viscerale o meno che sia).

Davanti all’opera d’arte si prova un piacere che non ha alcuna relazione con il fatto di aver mangiato bene, di aver guadagnato dei soldi, di aver fatto sesso. Il piacere estetico non è legato al desiderio. Il vero piacere del godimento artistico non prevede il possesso. La soddisfazione è puramente disinteressata: uninteressierte Wohlgefallen.

Sono il senso dell’a-senso e l’a-senso del senso che si palesano nell’arte, come una finestra sull’Abisso, sul Caos e il dare forma a quell’Abisso è appunto il momento del senso, la creazione di un Cosmo attraverso l’arte. Così la grande arte non poò più essere fenomenica; diviene trasparente. Nulla si cela e tutto si rivela. Per questo nella grande arte non c’è fenomenalità, ma trasparenza assoluta.

E alla fine (ecco l’estensione psicoanalitica della funzione catartica) c’è la “versöhnung” (un termine che Freud impiega in un contesto differente); una sorta di riconciliazione, di riappacificazione con la fine del desiderio.

Addio Franca

Povera Terra.

Sempre più povera.

Grazie Franca.

Del silenzio

Chi scrive queste righe, personalmente vorrebbe che il proprio pensiero si potesse librare al di sopra del marciume che lo circonda. Vorrebbe poter discorrere di amore, di solidarietà, di arte, di natura, di bellezza, di meraviglia, di emozioni che nutrono l’esistenza. Vorrebbe che i sorrisi lubrichi dei “rappresentanti istituzionali”, dei tanti esseri spregevoli, che inondano, come viscido liquame, gli schermi televisivi, i cartelloni pubblicitari, i quotidiani, le riviste e, proditoriamente com’è nella loro natura, anche le cassette della posta, non arrivassero a contaminarlo, come un pestilenziale virus, in ogni ora del giorno e della notte.

Uno splendido airone
Chi scrive vorrebbe che questi laidi sorrisi, emblemi protervi del potere politico, corrotto e corruttore, non avessero la capacità di riportarlo, così violentemente, ad una realtà, possente e osceno buco nero di squallore, dal cui gorgo gravitazionale nessun pensiero sublime riesce più a riguadagnare la luce.
 Chi scrive vorrebbe poter guardare in alto; il cielo, le nubi, le facciate dei palazzi d’arte, le fronde degli alberi e si vede costretto, invece, a tenere gli occhi incollati a terra per evitare di inzaccherarsi i piedi nel putridume esondato da tanta “quotidiana istituzionalità”. Un immondo liquame esondato dalle loro “fecali esistenze” nelle nostre.

I miei maestri non sarebbero contenti di me.

Coloro che mi hanno aiutato a forgiare il mio spirito nella disciplina, nella resistenza, nella temperanza, nella compassione, nella coerenza, nell’onestà intellettuale; cosa direbbero della mia rabbia e della mia stanchezza?
 Sarei accusato di aver dato troppo spazio al pensiero e non potrei controbattere a tale loro affermazione.
È vero, confesso: sono colpevole. Le quotidiane nefandezze, da cui mi sento assediato, trattengono al suolo il mio spirito e gli impediscono di tentare di accedere a quel livello superiore nel quale si contempla la natura e l’arte con la mente di un fanciullo.

Da molti anni non parlo o scrivo più per convincere. Convincere era un atto di megalomania, un tentativo di esaltazione del proprio ego, un esercizio occulto di potere, sull’altare del quale veniva spesso sacrificata la Verità. Una pratica perversamente eristica, per manifestare il proprio potere sugli altri. Per convincere, si doveva essere convinti, a meno di praticare la subdola arte della maieutica, ed avere convinzioni era una condizione prettamente giovanile. O patologicamente senile.
 Sono certo (ciò non vuol dire che io non cada più in tentazione) che nel tentativo di convincere altre persone della giustezza delle proprie tesi, si occulti, nel proprio agire, qualcosa di profondamente sbagliato, addirittura di perverso, che rischia di rendere erronea anche la tesi più pura e rigorosa.

Da molto tempo, quindi, uso riflettere ed articolare i miei numerosi dubbi, spesso in pensieri segreti, talvolta a voce alta o talaltra sussurrando ad una pagina scritta, come in questo caso. Spesso, però, la penna cade e la lingua resta inerte, circondando il pensiero con “la mistica del silenzio”, per purificarlo dalla contaminazione del verbo.

Credo nel dubbio. È l’ossimoro, l’antitesi di una vita. Credere nel dubbio è come affermare, in qualche modo, che si crede di non poter credere.
 Credo, altresì, che alcuni dubbi siano indotti e siano giustificati solo dai limiti di cui la natura ha dotato l’animale uomo e di cui alcuni poteri terreni si sono nutriti, accresciuti e irrobustiti a dismisura, con maligna genialità.
 Ne consegue che alcuni dubbi, fonte di ambascia per gli esseri umani, mi lasciano completamente indifferente.
 Dio, la vita ultraterrena, quella eterna, le finalità, il dolore, l’infelicità, la morte. I grandi misteri dell’esistenza: tutte vecchie strade, sconnesse, franose e fangose. O linde e pulite, ma zeppe di gente alla ricerca di verità a buon mercato.
 Quindi, proprio per quell’avversione che da sempre nutro per qualsiasi forma di catechesi, laica o religiosa che sia, le mie si configurano, quindi, come riflessioni, che una persona più intelligente di chi scrive, qui ed ora, terrebbe ben chiuse nella propria testa e che io, ipodotato iposapiente iperconsapevole, in momenti di debolezza, lascio, con inaudita violenza sul silenzio in cui dovrebbero essere vergognosamente custodite, che scivolino su queste pagine che, sinceramente, mi auguro siano sempre poco lette.

Rifletto.
Rifletto per vivere. Rifletto per non abbandonarmi alla follia che, in agguato dietro ogni albero, nell’intricata foresta della conoscenza, seduce e poi divora gli esseri umani che tentano disperatamente di sfuggirle.
 Splendida ammaliatrice la follia, tra le cui braccia si stemperano gli squallidi deliri della normalità. Radiosa mantide che nell’afflato della sua copula assassina, esaurisce la sua tribale estasi cannibalica.

Esprimo.
O meglio, tento di esprimere. In assonanza con Beckett, più di mezzo secolo dopo, affermo che: “Non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, nessuna capacità di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all’obbligo di esprimere”. Quell’obbligo di esprimere che ogni individuo onesto deve sentire profondamente ed ineluttabilmente.
 Questo obbligo di esprimere si accompagna, però, ad una scoperta di annichilente valore; la scoperta dell’illogicità della conversazione di tutti i giorni. La scoperta dell’impossibilità degli uomini di comunicare conversando. La scoperta che la parola si è trasformata nello strumento primario per l’incomprensione umana. La constatazione che la verità e la parola hanno imboccato, da tempo, sentieri divergenti. Ecco, allora, che riscopro la saggezza trascendente insita nei silenzi di Zi’ Nicola e il profondo giudizio che questi dava del resto dell’umanità, con i suoi sputi su di essa.
Noi uomini, della verità, abbiamo perso le tracce. Noi miseri, meschini, egoisti, dediti proditoriamente alla parola privata della verità. Alla menzogna. Ad essa ed ai suoi opulenti frutti innalziamo templi e con essa ingrassiamo i nostri tesori.

 La parola fonda il suo potere su convenzioni basate sulla falsità, sull’illusorietà, su assiomi infingardi che le permettono di perpetuarsi. Così le stelle divengono fisse e l’informità celeste diviene una sfera.
 Così la morte si trasforma in vita eterna e il dolore in un viatico per i Campi Elisi.
“Die Wahrheit! Schwärmerischer Wahn eines Gottes! Was geht die Menschen die Wahrheit an! Und wo ist sie in? Ein verflogener Traum, weggewicht aus den Mienen der Menschheit, mit anderen Träumen!”
La verità! Esaltata follia di un dio! Cosa importa agli uomini la verità! E dov’è finita? Un sogno svanito, spazzato via con altri sogni dalla faccia dell’umanità!

Nietzsche, prima di Beckett, riduce a zero le speranze di poter riutilizzare la parola come strumento di riunificazione.
 Cosa ci rimane, allora? Il silenzio?
Ma come possiamo esonerarci da quell’obbligo di esprimere che “percorre l’immobilità”, che dà voce al silenzio che ci ammalia e che rischia di confinarci in regioni, sempre più lontane dagli “altri”? Quell’obbligo che ci impone moralmente di condividere il dolore che non riusciamo ad eliminare.
Quale altra scelta è lasciata al nostro desiderio di partecipare. In quale modo possiamo dar voce al disgusto che proviamo di fronte ai poteri saprofiti, che si nutrono e prosperano sulla distruzione e la morte.
Come non distaccarci dalla sofferenza che ci circonda. Come continuare a manifestare la propria contrarietà alla deriva morale a cui ci stanno condannando? Come contrastare un potere che vorrebbe consentire, a tutti noi miseri umani, la democratica scelta tra imbecillità o silenzio. 
Nel tragico e feroce banchetto, imbandito con le carni dei miti e dei mansueti, il nostro silenzio viene rotto solo dai lamenti.
 E noi, perdiamo la voglia di parlare. Scopriamo l’illogicità della conversazione di tutti i giorni.
 Scopriamo l’inganno della parola e i limiti della comunicazione attraverso di essa.
Ma il silenzio è così profondo, da tenerci svegli l’intera notte.

Il Direttore d’orchestra: un animale in estinzione

   Quando informo sulla professione che svolgo, coloro che sono interessati a saperlo, vedo accendersi sul viso delle persone un’espressione che racchiude un connubio di ammirazione e una buona parte di invidia.
Molto presto mi sento in dovere, per profondo amore della verità, di ridurre alla sue reali proporzioni tale ammirazione e di cercare di cancellare completamente l’idea che, questo mio, sia un lavoro di pura ed estatica delizia.
Non è per niente così. Lo ribadisco con forze e con la consapevolezza di rivelare qualcosa in grado di distruggere la visione romanticamente ipocrita che ammanta di un’aureola di superumanità una professione che viene spesso seppellita sotto lo squallore di incapacità manifeste e che spesso meriterebbe di languire ai più bassi gradini dell’ipocrisia umana.
Quello del direttore d’orchestra, è un lavoro che spesso dovrebbe essere remunerato con un’ondata di pubblico dileggio. Subissato di risate, talvolta di schiaffoni e, in altre epoche, accompagnato da un invito a trovarsi, con due padrini, dietro le mura del convento delle Carmelitane scalze, avendo scelto l’arma per il duello.

Il direttore d’orchestra è il mestiere più facile del mondo. È uno dei bluff più frequenti nel mondo della musica. Esso è uno dei pochi mestieri che si può praticare anche senza saperlo fare. D’altronde, le orchestre (quelle si, sono piene di professionisti che spesso hanno dovuto dimostrare le proprie capacità, misurandosi con altri competitori, su valori reali e non così aleatori e fumosi come quelli della Direzione d’orchestra e con regole comuni del gioco) potrebbero ben condurre in porto un’esecuzione, senza il disturbo di un incapace buffone semi-epilettico.
Per essere direttore d’orchestra, basta avere famiglie famose alle spalle, amici importanti, potenti lobby sessuali, confraternite illegali, religioni monocratiche, logge sottoesposte ed è fatta. Ovviamente, servono anche orchestre “di bocca buona” e di orecchie dozzinali, prone all’incapacità manifesta dei loro “Guru”. Ma, coi tempi che corrono, più di tanto non si può pretendere.250px-Carlos_Kleiber
Grandi oncologi, chirurghi famosi, manager importanti, politici di grido, speakers televisivi, o quant’altro vi possa venire in mente da inserire nella categoria dell’intrallazzo, hanno regalato ai loro marmocchi, come si fa coi bambini capricciosi, posti di grande prestigio nelle Istituzioni musicali italiane. Non si potrà mai negare che “i figl so’ piezz’ ‘e core” e “al cuor non si comanda”, meno che mai nel paese che ha inventato il nepotismo.
E ovvio che, in mezzo ad una schiera di direttori incapaci, quelli  bravi abbiano pochissimo spazio per confrontarsi con “l’incapacità assurta a regola”. Sia per l’endemica riduzione delle orchestre sinfoniche, praticata in questa nazione di eunuchi musicali, sia per la riduzione dei finanziamenti attribuiti alle Istituzioni musicali, alla Cultura ed allo Spettacolo. Ed, infine, perché essi costituirebbero un elemento di paragone evidente, un metro sicuro su cui misurare “i’incapacità degli eletti”.
Ma torniamo a quello che è il mestiere più mistificabile del mondo e paragoniamolo a quelli, molto più “terreno”  e, spesso, meno ipocrita, di elettricisti ed idraulici.
La luce c’è o non c’è. Il tubo perde o no. Le discriminanti per stabilire se un idraulico o un elettricista sanno fare il loro mestiere le possediamo. Compreso quelle per stabilire se sono onesti o no.
Nella Direzione d’orchestra tutto questo non esiste per il normale ascoltatore contemporaneo..
L’orchestra va sempre a tempo, perché se il direttore è bravo, lo guarda e lo segue, se è un cane, non lo guarda e non lo segue. In questi casi sarà la Spalla, cioè il Primo violino ad incaricarsi di “tenere assieme tutti gli archi. Un segnale inquietante per l’ascoltatore sarà il vederlo agitarsi, molto più del dovuto. Più la Spalla si agita e meno fiducia al direttore è stata conferita dall’orchestra.
Un tempo si diceva che il più grande torto che un’orchestra potesse fare a certi direttori era proprio, “suonare come loro dirigevano”. Io chiamerei questa, una forma di giustizia naturale: “La giusta nemesi”. Che dovrebbe riempire di ignominia il “portatore della ciltroneria”. Purtroppo, però, se l’orchestra suona male, solitamente le si attribuiscono tutte le colpe, mentre,  se suona bene è merito quasi unicamente del direttore. Nell’ignorante società ipocrita, nella quale sguazziamo, la faccenda si ripete in questi scandalosi ed ingiusti termini.

Ma, è dato anche il caso che l’orchestra suoni intonata, suoni a tempo, suoni le note corrette, con dinamiche più o meno giuste. E che tutto ciò non corrisponda al sublime concetto del “fare musica”. Mettere le note una dietro l’altra nel corretto ordine rimane lontano alcuni Parsec e distante anni luce dal “mistico far musica”.

Fare musica è un atto mistico. È la preghiera di una religione sublime, che non ha bisogno di alcun Dio, se non di uno spazio nel quale praticare il suo illuminato “Panteismo dei suoni” ovvero diffondere quel sentimento che espande le nostre ridotte dimensioni corporee fino ad inglobare tutto il resto dell’universo. Un rito per uomini e donne pensanti che riescano a sentirsi parte di un Tutto naturale da cui nessun sforzo perverso o egoistico potrà mai separarci. Un Klangteismo che permetta agli individui, che non sono e non saranno mai “Un Leonard+Bernstein+Vienna+Philharmonic+LeonardBernsteinIntero”, di diventarlo, ricostituendo l’unità primigenia; l’Intero ricostituito attraverso il potere trasfigurante e trascendente della musica: unico e vero miracolo laico, di fronte al quale cadiamo in forme acute di profondissimo misticismo. E checché ne creda o ci abbia indotti a credere la Chiesa, con l’innumerevole quantità di menzogne straordinarie ,di banalità sciocche e infantili, di superstizioni condizionanti, di cui abbia riempito il nostro limitato intelletto, rifulge in tutto ciò una straordinaria verità: l’arte non ha bisogno di Dio. Meno che mai, la musica.

Come dicevo, quindi, niente delizia può derivare da un frammento del Tutto.
Sola esaltazione dello spirito ramingo è la riscoperta, l’incontro e la ricomposizione di quel Tutto che ne è l’essenza primigenia, la quale sola ne permette la trascendenza e la trasfigurazione nel “ewigkeiten Nichts”.

Ma nella Direzione d’orchestra non avverrà mai la completa trascendenza. Quella che si ottiene dall’identificazione del risultato fisico con la proiezione mistica impressa nella mente del Direttore. E sarà proprio questo minimo scarto di immagine ad impedire la consegna dell’opera musicale al vuoto cosmico.

Quanto dolore si riesce ad intuire in grandi direttori d’orchestra, nelle interviste rilasciate, quanta sofferenza, quanta insoddisfazione, quanto struggimento. Basterebbe, a tal proposito, leggere le biografie di Toscanini e di Mahler, tra i più grandi direttori di tutti i tempi, per leggervi tutto ciò.
Il “dopo-concerto” è sempre pieno di complimenti, di sorrisi, di esaltanti commenti e anche il direttore eticamente più evoluto, comprende che interrompere con la verità quella idilliaca fase di menzogna sarebbe un grave colpo alla propria credibilità.

Ebbene, come dicevamo, fare il direttore d’orchestra è una missione. È un viatico ricevuto da qualche grande ierofante musicale che ci ha insigniti dell’onere di diffondere la musica nel mondo. Acchè gli uomini, resi migliori dall’Urklang, riescano sempre più a ricomporre i propri spiriti.
È un compito difficile, faticoso e soggetto a profonde e frustranti condizioni di emarginazione e di ostracismo.itoscan001p1

Insegnare Formazione orchestrale (o Esercitazioni orchestrali, come venivano chiamate prima della nefasta riforma degli studi musicali) in un Conservatorio di Stato, contribuisce notevolmente ad aumentare la dose di sofferenza insita nel ruolo di docente, del quale non sono affatto soddisfatto di far parte.
Chi come me, proprio perché messo costantemente a contatto con le realtà dell’insegnamento e dell’apprendimento musicale, è costretto a costruire muri con mattoni sbrecciati, con poca consistenza, con poca malta, guarda con profonda invidia ai risultati ottenuti dai colleghi d’oltralpe, che essi siano: francesi, olandesi, tedeschi, austriaci    o dei paesi dell’est europeo. Tali realtà didattiche (per tacere di quelle esecutive) formano una sorta di baluardo, dietro il quale cerchiamo di eclissare i nostri sensi di vergogna.

Non esiste, in natura, un “organismo vivente” straordinario come l’orchestra. In essa è racchiusa tutta la perfezione che la natura possa permette a noi di riprodurre artificiosamente. Essa asseconda  “la disciplina del cosmo” e la perfetta convivenza germinale della micro nella macro-struttura.
Vista con le lenti di un microscopio o con quelle di un telescopio, l’orchestra riproduce le immutabili strutture musicali che fungono da sostegno per ogni costruzione artistica. L’orchestra riproduce il mondo, la vita, gli organismi unicellulari. Bellezza e ordine che James Hillman considera, con nostro immenso dolore, fuggite da questo mondo guasto, hanno scelto la musica per tornare fugacemente a farci visita; poveri indegni.

Non sempre, però. Soprattutto, non in una nazione da cui l’ordine, che porta con sé la bellezza e fuggito inorridito da tempo.
L’arte è lavoro. È impegno costante. È cesello. È mistica. È visione chiara del Grande Tutto, di quell’Anima Mundi di cui siamo parte inalienabile.
Ed è, soprattutto, disciplina. Quel connubio di attenzione, capacità di sofferenza, tensione, coscienza, rispetto per gli altri.

Troppo spesso confondiamo l’operazione di giustapposizione delle note in sequenza ordinata, con il “fare musica”. Madornale errore. Delitto contro la Verità che unica deve reggere l’opera d’arte.
Oramai, troppo spesso, gli italiani si sono abituati ad inghittire pallottole di sterco di Yak, credendole bigné al cioccolato. Un processo di mitridatizzazione dell’ascolto, cominciato alcuni decenni or sono. In concomitanza con il lavaggio delle stalle di Augia dei contenuti cerebrali e delle coscienze degli italiani.
Nel lavoro artistico, nel fare musica c’è una ricerca di verità che unica può reggere la costruzione sonora, l’organismo vivente musicale. Ma non è difficile rendersi conto che, ogni tipo di ricerca di verità, in questa nazione culturalmente e moralmente defunta, non viene caldeggiato da alcuno.
Troppo spesso si assiste alla falsificazione artistica. A spettacoli di indecente falsità. Summe della menzogna in arte che, a ben vedere, in questa miserabile realtà geografica e sociale, magnificamente si accompagna con la diffusa falsità del vivere quatidiano ed alla diffusa ipocrisia che regge i rapporti di questa dannosa specie animale.

L’altra sera, in un Auditorium cittadino, si è svolta, ancora per l’ennesima volta, la vergognosa farsa della “menzogna in musica”. Una sorta di “piccola scimmia sbracciante” si è esibita in un indecoroso spettacolo, peraltro ben riuscitole, di “disturbo” di una esecuzione della Terza Sinfonia di Mahler, a cui questa presenza, sorta di irritante intercapedine, fastidiosa ed ingombrante, è riuscita ad abbassare il livello dell’esecuzione orchestrale, che poteva esser molto dignitoso.
Il piccolo “sinantropo” ha fatto suonare l’orchestra “in apnea”, per due ore, impedendo a questa, con la sua scadentissima, meccanica e proditoria tecnica direttoriale, qualsiasi costruzione fraseologica. Che, per un musicista, equivale a “non fare musica”.
Forse le dimensioni, invero piccole della direttrice d’orchestra asiatica, l’hanno portata al tentativo di occupare il maggior spazio possibile, come succede agli iguana minacciosi, anticipando ogni respiro (in musica: ogni ritardo può essere giustificato; ogni anticipo è pura “antimusicalità) ed impedendo una lineare costruzione fraseologica “vitale”.
MAHLER FOTOHo ritenuto (per uno sporadico frequentatore dei concerti, quale mi sono ridotto ad essere) questa “sgradevole ed antimusicale esibizione ginnica, come un ulterore esempio delle “proprietà mistificanti” della Direzione d’orchestra.
Il buon direttore d’orchestra dovrebbe lentamente sublimarsi e divenire semitrasparente allo sguardo degli ascoltatori, restando una presenza amichevolmente vigile per l’orchestra, sulla quale il suo intervento non deve esplicarsi a tempo pieno, esaltandosi della propria figura da attore primario e del proprio ego smisurato.

Personalmente, cerco di trasferire agli allievi (di alcuni devo riconoscere le indubbie doti musicali, ma in pochissimi di loro rinvengo doti morali già formate) la sensazione di amore e di rispetto che dobbiamo trasfondere nell’opera artistica e che sole devono guidare le nostre scelte, abbandonando le smodatezze dell’ego o i condizionamenti di mode superficiali ed ipocrite.
L’arte come vocazione, attende sulla stessa isola lontana, su cui riposano Bellezza e Ordine.
Ne attendo il ritorno e cerco, con il mio piccolissimo contributo, di creare le condizioni perché, tali categorie dello spirito, desiderino ancora venirci vicine.

Della vita e del nulla silente

Alcuni anni fa decisi di recarmi dal mio medico per una normale visita di controllo. Non avevo particolari disturbi, ma ero solito, periodicamente incontrarlo per farmi rassicurare sul mio corretto stato di salute.
Non avrei mai immaginato che quella visita avrebbe cambiato completamente la mia vita.
Il mio medico, senza grandi cautele, mi diede la notizia che avevo contratto un virus che uccide il 100% delle persone infettate. La notizia era di quelle che troncano il respiro e tagliano le gambe. E spesso modificano il corso dell’esistenza.
Quando mi vide adagiato su una sedia il medico, peraltro un amico, aggiunse anche, con un po’ più di cautela e di partecipazione empatica, che il virus, purtroppo, era uno di quelli che si modificano talmente in fretta, da non permettere alcuna previsione su come si svilupperà nel prosieguo della malattia.
Avrebbe potuto restare latente per molti anni, anche per decenni, o uccidermi nel giro di un’ora. Avrebbe potuto provocarmi un infarto, un colpo apoplettico, una miriade di forme di cancro. Perfino la demenza. Avrebbe potuto portarmi addirittura al suicidio. Nel suo stadio terminale avrebbe potuto assumere le forme più svariate, senza alcuna limitazione.
Nessuna delle strategie che avrei potuto mettere in atto per contenerlo (come una dieta particolare o il riposo assoluto) sarebbe stata efficace.
Insomma, ero certo di dover morire, pur vivendo con il solo obiettivo di tenere sotto controllo gli sviluppi del mio virus, in quanto non avrei potuto contare su cure efficaci. Peraltro mi confermò che il decadimento del mio corpo era già in corso.
Ebbene, potevo morire in qualsiasi momento e non potevo fare nulla per impedirlo. Il mio stato d’animo era di grande prostrazione e di profonda infelicità di fronte ad una rivelazione di così ferale natura.
Tornato a casa, prima di fare partecipe alcuno della mia angoscia, rivelando quanto mi aveva diagnosticato il medico, volli meditare profondamente sulle parole che erano suonate per me come una irrevocabile condanna a morte.

Sono certo che la maggior parte delle persone riterrebbe un quadro come quello prospettatomi dal mio medico, quanto di più terribile possa accadere ad un individuo.
Ma chi, dopo attenta riflessione, potrebbe credere che ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente nuovo ed inaspettato? Valutiamo con attenzione il senso delle parole con le quali il medico ha descritto la mia tremenda patologia.
L’inevitabilità della morte non è forse una prognosi in tutto e per tutto simile a quella sopra descritta? La vita stessa non ha tutte le caratteristiche di questo nostro ipotetico virus? Potremmo morire in qualsiasi momento. Potremmo persino non vivere abbastanza a lungo per scrivere o leggere la fine di questo paragrafo. Ma non è tutto.
Ad un certo punto, nel futuro, moriremo certamente. Non c’è ombra di dubbio su questo. Se essere preparati a morire comporta sapere quando e dove ciò accadrà, c’è da scommettere che nessuno di noi sarà mai sufficientemente preparato.
Non solo siamo destinati a morire e ad abbandonare questo mondo, ma siamo destinati a farlo in modo tanto repentino che tutto ciò che ha una qualche rilevanza nel presente, tipo i rapporti personali, i progetti per il futuro, gli hobby e tutto ciò che si possiede, in quel momento, sembrerà del tutto banale.
Se tutte queste cose, proiettate in un vitalistico futuro, sembrano essere le grandi e fondamentali conquiste della nostra esistenza, la morte prova che non lo sono affatto. Quando un evento qualunque verrà ad interrompere la nostra vita, nel bilancio finale vi saranno ben poche conquiste. Forse, non ve ne sarà alcune che potremo menzionare. Sicuramente, nessuna a cui potremo restare attaccati.
E, se ciò non fosse già di per sé sufficientemente umiliante, possiamo aggiungere che la maggioranza di noi, prima di morire, soffrirà di una tacita confusione, quando non di un’infelicità profonda, dovuta ai rapporti, mai completamente chiariti, nella loro dinamica servo-padrone, tra noi e ciò che possediamo.
Amiamo, com’è giusto, la nostra famiglia e gli amici. Siamo terrorizzati all’idea di perderli, senza comprendere che la dinamica sarà l’esatto inverso: saremo noi a privare loro di qualcosa.
Eppure, in ultima analisi, non siamo neppure liberi di amarli, anche solo nel breve periodo in cui le nostre vite si incrociano.
Siamo troppo impegnati ad occuparci del nostro ego e dei suoi smodati bisogni. Siamo perennemente in balia, come un piccolo wagneriano Vascello fantasma, delle onde e dei venti nel mare dell’esistenza, alla ricerca, come il maledetto Olandese volante, di una persona che ci redima dal nostro peccato mortale: la volontà di possesso.
Come Freud e i suoi successori hanno continuamente sottolineato, ognuno di noi è combattuto e guidato da necessità contrapposte: da una lato le onde che ci fanno sentire parte di un’immensità condivisa e dall’altro i venti, che esaltano le nostre individualità e l’esigenza perenne di dare soddisfazione ai nostri smodati appetiti.
Confonderci col mondo e perderci, nel “tutto umano” che ci circonda o ritirarci nella fortezza della nostra individualità. Identificarci o opporci a qualsiasi omologazione. Deidentificarci o renderci riconoscibile agli “altri da noi”?
Ciascun impulso, se portato agli estremi, sembra condannarci all’infelicità. Siamo terrorizzati dalla nostra insignificanza in quanto uomini e molto di quello che facciamo nella nostra vita costituisce il tentativo di tenere a bada questa paura. Di acquietare la sottile angoscia che ci pervade costantemente.
Anche se tentiamo di non pensarci, in pratica, l’unica vera certezza della nostra vita è che un giorno moriremo. Lasciandoci tutto alle spalle. Un “Tutto” destinato a divenire “Nulla”.
Eppure, per la nostra mente, è quasi impossibile credere che sia così.
La nostra percezione della realtà sembra escludere il fatto che moriremo.
Mettiamo in discussione l’unica cosa assolutamente certa.

L’idea della morte ci terrorizza. Noi; animale infelice. Unico ad avere coscienza della propria mortalità. Unico ad aver sublimato la propria infelicità, nel potere di distribuire dolore e di distruggere altre vite.
Perché mai il mondo dovrebbe sopravviverci?
Alla morte abbiamo elevato altari. Immensi e sempre ricoperti di sangue.
Per lei abbiamo compiuto sacrifici, offrendo spesso altre vite in cambio di quella che ci appare preziosissima e che ci appartiene. Per esorcizzare la paura che essa ci incute e che ci riempie di terrore abbiamo creato simboli, dei, culti, religioni, preghiere. Mondi, inframondi, ultramondi, oltremondi. Li abbiamo riempiti di delizie e di castighi, ma abbiamo conferito loro il valore di “eternità”. Abbiamo talmente riempiti di valori questi mondi da avere svuotato quasi completamente quello in cui trascorriamo il breve lasso di tempo della nostra permanenza su questo pianeta.
Questa nostra fugace permanenza. Così faticosa. Talvolta dolorosa.
Un breve urlo tra due silenzi.
Eppure questo spazio che, anche sonoramente, è racchiuso tra un urlo ed un lamento, oppresso dai due silenzi eterni che lo incorniciano, ci offre la metafora per considerare la banalità del nostro rimpianto. Così tanto ci angoscia il nulla eterno che seguirà la nostra morte, così come tanto poco ci angoscia il nulla cosmico che ha preceduto la nostra venuta al mondo. Il nulla precedente non ci angoscia affatto; il nulla seguente ci sgomenta e ci atterrisce. Ma cosa distingue il prima ed il dopo. Cosa rende differente il nulla che ci precede da quello che ci segue.
Prima non sapevamo di doverci essere e dopo prendiamo coscienza che, ad un certo punto, non ci saremo più. Allora sperimentiamo il pensiero come dolore. L’idea dell’abbandono della vita, come sofferenza. La vita stessa viene oppressa e sminuita, nel suo valore, dal senso della sua caducità. Ah, misero Ego infelice.

Perché non dare invece, un valore ancora più grande a questo lasso di tempo concessoci dalla natura, in virtù soprattutto del fatto che esso sia limitato e conchiuso?
O non è forse il “desiderio di possesso” quello che ci tiene così legati a questo mondo, da non volerlo abbandonare per nessuna ragione. L’aver gustato le “delizie terrene” ci induce ad abbarbicarci, come scimmiette golose, all’albero della vita, per non rinunciare ai suoi frutti.

Alcune religioni hanno formulato situazioni paradossalmente idilliache per chi abbandona, unicamente assecondando la volontà del loro Dio (qualunque esso sia), questo mondo. Vino, latte-miele, salumi, vergini a decine di migliaia, delizie di ogni genere, corpi che si risveglieranno gloriosi, nella loro condizione migliore. Ogni cosa proibita in vita, diverrà premio per la vita ultraterrena.
Viene, quindi, offerto un indennizzo, per tutto ciò a cui si è costretti a rinunciare.
Ma tutto questo si infrange contro il pragmatismo, incredulo e blasfemo, che ci vede lasciare il poco certo per il molto incerto, sempre a malincuore.
“Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che più parrà strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire”, ci ricorda Seneca.
La morte non esiste” ci ammonisce Epicuro, poiché esiste solo ciò che è sperimentabile in vita; e la morte non lo è.
Esiste solo la vita, con le sue miserie, le grettezze quotidiane, l’egoismo vile, l’ingordigia prettamente umana. Un dissennato modello di autodistruzione che nasce dalla disillusione e dall’insoddisfazione ed ottiene, come ricompensa, noia, infelicità e poi, di nuovo, desiderio, in un’inarrestabile vortice di miserabilia.
Ma esiste anche la vita piena di ricchezze. Riflessione, pensiero, compassione, solidarietà, altruismo, coerenza, comprensione, studio, attenzione, ricerca, dedizione, volontà. E amore. E bellezza. E ordine. E arte. E attenzione per tutto quanto ci circonda. E responsabilità personale. Unica ed ineludibile.
E la liberazione da questo ciclo insensato. Ma una liberazione ottenibile in vita, formandosi alla schopenaueriana volontà di non volere. La redenzione, come per Holländer, verrà allora accompagnandosi alla liberazione dalle catene del folle desiderio.
Si nascerà per l’unica e vera nascità; quella che ci impedirà veramente di morire.
La differenza sarà allora tra chi nasce e muore con consapevolezza e coraggio e chi, per il terrore di morire, non sarà mai nato.
In una frase Cioran, con la causticità dei suoi straordinari aforismi, sintetizzava il senso della vita e della morte con queste parole: «Un tempo, davanti a un morto, mi chiedevo: “A che gli è servito nascere? Ora mi faccio la stessa domanda davanti ad ogni vivo”».
Trovare un senso a questa nostra “frase tra due silenzi” è difficile. Per tanti, impossibile. Molti balbetteranno frasi incomprensibili. Alcuni biaschicheranno idiozie. Altri si dedicheranno al turpiloquio. Molti alla bestemmia. Moltissimi alla menzogna.
Altri decanteranno la propria insostituibile grandezza. Altri esporranno malamente la propria stoltezza.
In questa ridda di esseri vocianti e di frasi affidate ad un unico soffio vitale, anche noi potremo pronunciare la frase che riterremo più opportuna.
Nulla potrà impedirci di pronunciarla quella frase. E se poi sarà posta come epitaffio sulla nostra umile lapide, essa assumerà il valore che ebbe per Pablo Neruda, quando, al termine del suo percorso, sussurrò, a chi restava affranto dal dolore: “Confesso che ho vissuto”.

Ad un gigante: Karlheinz Deschner

Continuare a parlare degli squallidi coproliti planetari che gravitano sulle nostre vite e che, come pericolosi “meteoriti fecali”, minacciano di abbattersi, ogni istante, sulle nostre vite, spesso ha il perverso effetto di abbassare al loro livello il nostro pensiero. Fino a costringerlo ad inzaccherarsi nello stesso liquame nel quale, i vari subumani, grufolano felici ad onta dei loro immensi e fraudolenti patrimoni. Al sicuro da leggi e magistrature umane.
Quindi, giusto per salvare dall’annegamento nelle feci, prodotte copiosissime dai nostri “coproludici uomini pubblici”, i nostri pensieri, rivolgiamo la nostra mente ad un “Gigante del Pensiero”: Karlheinz Deschner.
Accade così raramente di poter ringraziare i grandi uomini per il lavoro da essi svolto a favore dell’umanità. Per la fatica costante di una vita, per la dedizione e l’amore per la verità espresso con il loro sforzo immenso e totalizzante.
Karlheinz Deschner è il più grande studioso vivente di Storia del Cristianesimo, a cui ha dedicato l’intera sua esistenza. La sua conoscenza, in assoluto la più approfondita, ampia e documentata che sia stata raccolta, si compendia in una serie di libri, la cui lettura equivale, per il pensiero umano, ad “uno scatto evolutivo”.
Il suo “Il gallo cantò ancora” espone una storia critica della Chiesa e del rapporto di questa, attraverso i secoli, con le parole di Cristo, prima, e con l’intervento di Paolo di Tarso poi che definire illuminante rischia di essere solo riduttivo della sua importanza.
Ma è soprattutto con la sua monumentale “Storia criminale del Cristianesimo”, a cui questo studioso ha dedicato l’intera vita, che Karlheinz Deschner assurge al rango di “Gigante tra gli umani”. Quest’opera, in dieci volumi (che si sta completando in questi giorni), che ha impegnato almeno quarant’anni della preziosissima vita di Deschner, è supportata da un’immensa documentazione, raccolta ed analizzata con grande e profonda onestà intellettuale.
In un suo articolo del 1986 scrive: “Dichiaro, dopo essermi intensamente occupato della storia del Cristianesimo, che non conosco nell’antichità, nel medioevo o nell’età moderna, compreso e soprattutto il XX secolo, nessuna organizzazione del mondo che al tempo stesso così a lungo, in modo così continuativo e così mostruoso sia colpevole di delitti quanto la Chiesa cristiana, in modo particolare la Chiesa cattolica-romana. Questa dichiarazione. già documentata dalle pubblicazioni di critica alla Chiesa da me scritte o curate, sarà ulteriormente avvalorata dalla mia “Storia criminale del Cristianesimo” e sarà valida fintanto che prima o poi qualcuno sia capace di mettere di fronte al ben fondato materiale da me prodotto un materiale altrettanto ben fondato che mostri qualche altra organizzazione del mondo come colpevole di delitti altrettanto a lungo, in modo altrettanto continuativo e altrettanto mostruoso”.
Kriminalgeschichte des Christentums è un’opera che, a questo straordinario studioso non ha portato alcuna ricchezza materiale, se non la soddisfazione di aver contribuito, come pochi altri, al tentativo di liberare la mente umana dalle tenebre in cui è stata segregata da duemila anni di potere corrotto, immorale, perverso e criminale, assurto a primo potere economico mondiale in grado di condizionare, in modo estremamente negativo, l’evoluzione del pensiero, impedendo all’intera specie umana ogni percorso di reale consapevolezza delle ragioni della propria permanenza nel mondo.

Dello scrivere

I libri vanno scritti a trent’anni. Quando uno ha imparato molte cose, ma non così tante da non riuscire più a farne una cernita. Censire gli argomenti che riempiono (ma forse, questo, non è il verbo giusto) la mente di un uomo di oltre sessant’anni non è più possibile.
Questi sono diventati dei mutanti. Sono esseri dalle caratteristiche ibride, rivestiti di sembianze che occultano la loro natura originaria. Esseri così geneticamente trasformati da non rispondere più neppure al richiamo del loro portatore. Animali indisciplinati. Schiavi ribelli. O, semplicemente, voci e lemmi di un immenso dizionario, perversamente mescolati da un tipografo burlone: orrendamente sadico o profondamente saggio, non è dato sapere.
Forse, bisognerebbe solo smettere di scriverli i libri. Dedicarsi, a tempo pieno, alla lettura di quelli che da circa sei secoli sono stati composti da tipografi, meno in vena di tragiche facezie del tipografo burlone di poc’anzi.

Pensiero. Pensieri. Tanti pensieri. Liberi pensieri. Accade talvolta che i pensieri divengano talmente liberi da non saperne più che fare della loro libertà e, fermi, immobili, ad un minimo cenno, inizino ad agitarsi tutti assieme, come cani che hanno fiutato la preda.
Eccitati dall’odore di una volpe impaurita, inebriati dal suo terrore, si precipitano fuori dal recinto e azzannano, forsennati predatori, la prima preda indifesa che incontrano sul loro percorso di devastazione: la nostra povera e stanca mente.

Poi, perché scrivere? Per chi?
Per sé? Per chi, dopo di noi, coltiverà in sé lo stesso germe di pianta debole e malata?
Per trattenere qualcosa o per liberarsi di qualcosa? Perché in cerca di chiarezza, di lucidità, di verosimiglianza?
Per levarsi di dosso la polvere del passato e fare un po’ più di luce sul presente. Per vincere le tenebre che avvolgono il futuro, che gonfiano di paura il nostro petto, e scovare nelle ombre che ci circondano, l’ombra amica della verità.
Per dire no a guerre, fame, sfruttamento, opportunismo, corruzione. Per gridare un “no” deciso alla falsificazione, al forzato istupidimento e alla sconfinata ipocrisia di cui si fa forte l’incoerenza umana. Per dire “no” alla sete inestinguibile che soggioga le menti e alimenta la perenne dipendenza dal bisogno di potere.
Scrivere, per chiamare gli eroi in soccorso. Quando la disperazione per il disgusto che infonde l’appartenenza al genere umano ci travolge e pare lentamente soffocarci nel suo asfittico abbraccio. Ecco, allora, che gli uomini che ci hanno reso tollerabile l’esistenza; belli, fieri, intensi ed attenti, appaiono, a placare le belve.
Con passo lieve, mantengono il loro piede indenne dal contatto con gli osceni personaggi, che hanno ammorbato l’aria di questo pianeta, fino a renderla irrespirabile. Individui che strisciano nel luridume delle proprie immonde escrezioni, leccandosi l’un l’altro, come immondi figli di una cloaca, gli sfinteri infiammati e devastati. Moloch osceni, Leviatani dell’ultimo giorno, bestie orrende nell’immaginario di un mistico folle.
Ecco, dunque, i giganti riappaiono. Spingono, enormi e dolenti Sisifo, il loro masso di affanni, denso dei dolori del mondo, per gettarsi con essi, generosi Empedocle, nella bocca del vulcano rigeneratore.

Scrivere, perché il fuggevole bagliore tra due eternità di tenebra non sia solo “silenzio tra silenzi”. Scrivere per non farsi travolgere dalle domande.
Tante domande. Com’è piena di domande questa nostra vita.
Sembra che l’occupazione che maggiormente ci coinvolge, filosofi, poeti o semplici esseri pensanti, sia quello di porci un numero infinito di domande. Invadiamo lo spazio a noi circostante di domande che arroventano l’aria e affannano il respiro.
Domande a cui spesso mancano le risposte. Spesso, domande a cui qualcuno ha provveduto a dare consolanti risposte. Molte domande che partoriscono dilemmi inesistenti e dilemmi che partoriscono, assieme ad altri dilemmi, perversi poteri che gravano sulle nostre quietate coscienze.
In questa consolazione tentiamo di annegare la disperazione che risorge in noi, quando le consolanti risposte ci paiono insufficienti.
Scrivere per ammansire i pensieri che, come lupi che assediano un vecchio cervo, eccitati dall’odore della sua paura, si accingono a ghermire le nostre menti impaurite.
Scrivere perché un nuovo dilemma quotidiano si sostituisce a quello del giorno precedente. O per l’ennesima inadeguatezza riscontrata nel corso del vivere quotidiano. Per il nuovo tremito che ci assale di fronte all’indefinitezza della nostra finitezza.
Perché, se la speranza è la forma normale del delirio, il delirio umano sta uccidendo la speranza.
Scrivere per cullare il sonno del dio Malengfung. Affinché il suo riposo duri a lungo e non accenni risveglio, rammentandosi che il suo compito è distruggere la propria malfatta opera: un mondo pieno di creature insane e pericolose.
Scrivere perché il dio Momo non debba più rimproverare Vulcano di non aver messo uno sportellino apribile sul petto degli uomini, per poterne scrutare il cuore.
Scrivere, perché raccontare i propri incubi al dio Sole era il modo migliore per esorcizzarli e mantenerli lontani dalle proprie notti.
Scrivere, perché illudersi di aver qualcosa da dire, che gli altri avrebbero interesse ad ascoltare, aiuta a trascorrere le buie notti insonni.
Scrivere perché si ha qualcosa di nuovo da dire. Scrivere perché quello che si vuol dire è stato detto insufficientemente.
Scrivere perché si è disperati per non possedere formule sciamaniche atte a guarire il mondo. O anche solo un aforisma che guarisca l’umanità. O anche solo una parola che lenisca il dolore di un cuore. O anche il gesto silenzioso che asciughi una lacrima.
Scrivere perché le parole riempiano i templi profani e li sacralizzino con il potere della verità.
O, molto più semplicemente, scrivere perché non si crede più alla parola. Perché si è scoperta l’illogicità della conversazione di tutti i giorni. Perché le ultime parole annunciano  l’impossibilità di continuare a comunicare. O perché ci informano, per l’ennesima e ultima volta, che si provvederà a giustiziare la parola, in quanto è lo strumento primario per alimentare la sempiterna vita della menzogna.
Scrivere perché, come ricorda Samuel: “Non vi è da esprimere, niente con cui esprimere, nessuna possibilità di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all’obbligo costante, insopprimibile di esprimere”.
Scrivere per muoversi in direzione dell’annullamento. Verso l’immobilità. Verso il silenzio.
Scrivere perché Vladimir non è più fra noi.
Scrivere perché James non è più fra noi.
Scrivere perché Karlheinz non è più fra noi.
Scrivere perché Gustav non è più fra noi.
Scrivere perché Ernesto non è più fra noi.
Scrivere perché pensiamo di sapere qualcosa e invece non possediamo che metafore delle cose, non corrispondenti in niente alle essenzialità originarie.
Scrivere, forse, solo perché la malinconia che ci devasta l’animo e che comprime il nostro cuore non sia solo dolore.
Solitario dolore.
Inutile dolore.