Dello scrivere

I libri vanno scritti a trent’anni. Quando uno ha imparato molte cose, ma non così tante da non riuscire più a farne una cernita. Censire gli argomenti che riempiono (ma forse, questo, non è il verbo giusto) la mente di un uomo di oltre sessant’anni non è più possibile.
Questi sono diventati dei mutanti. Sono esseri dalle caratteristiche ibride, rivestiti di sembianze che occultano la loro natura originaria. Esseri così geneticamente trasformati da non rispondere più neppure al richiamo del loro portatore. Animali indisciplinati. Schiavi ribelli. O, semplicemente, voci e lemmi di un immenso dizionario, perversamente mescolati da un tipografo burlone: orrendamente sadico o profondamente saggio, non è dato sapere.
Forse, bisognerebbe solo smettere di scriverli i libri. Dedicarsi, a tempo pieno, alla lettura di quelli che da circa sei secoli sono stati composti da tipografi, meno in vena di tragiche facezie del tipografo burlone di poc’anzi.

Pensiero. Pensieri. Tanti pensieri. Liberi pensieri. Accade talvolta che i pensieri divengano talmente liberi da non saperne più che fare della loro libertà e, fermi, immobili, ad un minimo cenno, inizino ad agitarsi tutti assieme, come cani che hanno fiutato la preda.
Eccitati dall’odore di una volpe impaurita, inebriati dal suo terrore, si precipitano fuori dal recinto e azzannano, forsennati predatori, la prima preda indifesa che incontrano sul loro percorso di devastazione: la nostra povera e stanca mente.

Poi, perché scrivere? Per chi?
Per sé? Per chi, dopo di noi, coltiverà in sé lo stesso germe di pianta debole e malata?
Per trattenere qualcosa o per liberarsi di qualcosa? Perché in cerca di chiarezza, di lucidità, di verosimiglianza?
Per levarsi di dosso la polvere del passato e fare un po’ più di luce sul presente. Per vincere le tenebre che avvolgono il futuro, che gonfiano di paura il nostro petto, e scovare nelle ombre che ci circondano, l’ombra amica della verità.
Per dire no a guerre, fame, sfruttamento, opportunismo, corruzione. Per gridare un “no” deciso alla falsificazione, al forzato istupidimento e alla sconfinata ipocrisia di cui si fa forte l’incoerenza umana. Per dire “no” alla sete inestinguibile che soggioga le menti e alimenta la perenne dipendenza dal bisogno di potere.
Scrivere, per chiamare gli eroi in soccorso. Quando la disperazione per il disgusto che infonde l’appartenenza al genere umano ci travolge e pare lentamente soffocarci nel suo asfittico abbraccio. Ecco, allora, che gli uomini che ci hanno reso tollerabile l’esistenza; belli, fieri, intensi ed attenti, appaiono, a placare le belve.
Con passo lieve, mantengono il loro piede indenne dal contatto con gli osceni personaggi, che hanno ammorbato l’aria di questo pianeta, fino a renderla irrespirabile. Individui che strisciano nel luridume delle proprie immonde escrezioni, leccandosi l’un l’altro, come immondi figli di una cloaca, gli sfinteri infiammati e devastati. Moloch osceni, Leviatani dell’ultimo giorno, bestie orrende nell’immaginario di un mistico folle.
Ecco, dunque, i giganti riappaiono. Spingono, enormi e dolenti Sisifo, il loro masso di affanni, denso dei dolori del mondo, per gettarsi con essi, generosi Empedocle, nella bocca del vulcano rigeneratore.

Scrivere, perché il fuggevole bagliore tra due eternità di tenebra non sia solo “silenzio tra silenzi”. Scrivere per non farsi travolgere dalle domande.
Tante domande. Com’è piena di domande questa nostra vita.
Sembra che l’occupazione che maggiormente ci coinvolge, filosofi, poeti o semplici esseri pensanti, sia quello di porci un numero infinito di domande. Invadiamo lo spazio a noi circostante di domande che arroventano l’aria e affannano il respiro.
Domande a cui spesso mancano le risposte. Spesso, domande a cui qualcuno ha provveduto a dare consolanti risposte. Molte domande che partoriscono dilemmi inesistenti e dilemmi che partoriscono, assieme ad altri dilemmi, perversi poteri che gravano sulle nostre quietate coscienze.
In questa consolazione tentiamo di annegare la disperazione che risorge in noi, quando le consolanti risposte ci paiono insufficienti.
Scrivere per ammansire i pensieri che, come lupi che assediano un vecchio cervo, eccitati dall’odore della sua paura, si accingono a ghermire le nostre menti impaurite.
Scrivere perché un nuovo dilemma quotidiano si sostituisce a quello del giorno precedente. O per l’ennesima inadeguatezza riscontrata nel corso del vivere quotidiano. Per il nuovo tremito che ci assale di fronte all’indefinitezza della nostra finitezza.
Perché, se la speranza è la forma normale del delirio, il delirio umano sta uccidendo la speranza.
Scrivere per cullare il sonno del dio Malengfung. Affinché il suo riposo duri a lungo e non accenni risveglio, rammentandosi che il suo compito è distruggere la propria malfatta opera: un mondo pieno di creature insane e pericolose.
Scrivere perché il dio Momo non debba più rimproverare Vulcano di non aver messo uno sportellino apribile sul petto degli uomini, per poterne scrutare il cuore.
Scrivere, perché raccontare i propri incubi al dio Sole era il modo migliore per esorcizzarli e mantenerli lontani dalle proprie notti.
Scrivere, perché illudersi di aver qualcosa da dire, che gli altri avrebbero interesse ad ascoltare, aiuta a trascorrere le buie notti insonni.
Scrivere perché si ha qualcosa di nuovo da dire. Scrivere perché quello che si vuol dire è stato detto insufficientemente.
Scrivere perché si è disperati per non possedere formule sciamaniche atte a guarire il mondo. O anche solo un aforisma che guarisca l’umanità. O anche solo una parola che lenisca il dolore di un cuore. O anche il gesto silenzioso che asciughi una lacrima.
Scrivere perché le parole riempiano i templi profani e li sacralizzino con il potere della verità.
O, molto più semplicemente, scrivere perché non si crede più alla parola. Perché si è scoperta l’illogicità della conversazione di tutti i giorni. Perché le ultime parole annunciano  l’impossibilità di continuare a comunicare. O perché ci informano, per l’ennesima e ultima volta, che si provvederà a giustiziare la parola, in quanto è lo strumento primario per alimentare la sempiterna vita della menzogna.
Scrivere perché, come ricorda Samuel: “Non vi è da esprimere, niente con cui esprimere, nessuna possibilità di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all’obbligo costante, insopprimibile di esprimere”.
Scrivere per muoversi in direzione dell’annullamento. Verso l’immobilità. Verso il silenzio.
Scrivere perché Vladimir non è più fra noi.
Scrivere perché James non è più fra noi.
Scrivere perché Karlheinz non è più fra noi.
Scrivere perché Gustav non è più fra noi.
Scrivere perché Ernesto non è più fra noi.
Scrivere perché pensiamo di sapere qualcosa e invece non possediamo che metafore delle cose, non corrispondenti in niente alle essenzialità originarie.
Scrivere, forse, solo perché la malinconia che ci devasta l’animo e che comprime il nostro cuore non sia solo dolore.
Solitario dolore.
Inutile dolore.

16 Responses to Dello scrivere

  1. Gentile Fulvio,
    non voglio abusare di uno spazio che, non nostro, a noi è così generosamente offerto. “Daunia Appulia appellatur a Dauno Illyricae gentis claro viro, qui eam propter domesticam seditionem excedens patria, occupavit”, scrive il grande Sesto Pompeo Festo (Fest., 69). Erodoto riconosce negl’Iapigi un ramo esule della gente cretese, diretto in Sicilia su suggerimento dell’oracolo delfico e poi naufrago, quindi riparato in Puglia (“ἀντὶ μὲν Κρητών γενέσϑαι ‘Ιήπυγαο Μεσσαπίους, ἀντὶ δὲ εἶναι νησιώτας ἠπερώτας” Erod., VII, 270). E qui Lei trova già il primissimo distintivo della cultura iapigia: il Destino che comanda l’esilio prima, e poi si prende cura in modo premurosamente imprevedibile dei propri Eletti.
    In un tale panorama mitologico, risulta quasi conseguente e necessaria l’attenzione sacrale riservata dagl’Iapigi al Tempo: qualcosa che, non potendo evidentemente comprendere appieno, essi si contentavano di misurare (una storia delle tecniche specifiche via via adottate si trova nel mio saggio, che forse sarà ripubblicato a breve). In questo angolo di realtà storica troviamo quindi verificata l’asserzione di Alano di Lilla secondo cui “Quaestio vetustissima natura temporum est”. Quando alle discipline specificamente musicali, è impressionante ed eccezionale immaginare quale valore aggiunto, quale dimensione ulteriore assumessero presso gl’Iapigi le danze rituali accompagnate dai soliti rudimentali strumenti: essi dovevano sentire questi eventi sonori in modo certamente più profondo e moderno di quanto potessero tutti gli altri popoli loro coevi.
    Spero di averLe dato poca soddisfazione, ma molta curiosità. Sarò nuovamente lieto di essere l’agente lievitante dei Suoi dubbi, se lo vorrà. E La saluto con lo stesso calore.
    AT

  2. Fulvio Porcellana says:

    Gentile Prof. Amrmando Tomin,
    leggendo i suoi preziosi contributi su questo forum scovo tra i piuttosto bizzarri titoli di sua produzione uno studio che ha calamitato il mio interesse (per quali ragioni glielo spiego più innanzi). Si tratta de “La moda del metronomo presso gli Iapigi”. Popolo del quale non so veramente nulla – grato se mi volesse rendere dotto in tal senso (la dottitudine su un tema è sempre un valore) – ma che immagino antico e relegato ad un piccolo fazzoletto di terra. Ora, siccome il mio incerto sguardo di ascoltatore sta ormai vertendo da anni a ritroso, ossia alla ricerca di quei prodromi della musica che possano giustificarne le posteriori tendenze e insomma gli sviluppi della musica sostanzialmente in Europa, io le sarei grato se riuscisse a darmi qualche sia pur veloce, o veda lei se non veloce, in base al tempo a sua disposizione, qualche informaziona al riguardo. Reperire fonti sulla musica dell’antichità è cosa ardua, e in quanto tale è straordinariamente rimarchevole se qualche paziente studioso (quale invero non sono io) tentando, vi riesce, riuscendo per giunta ad elaborare dei documenti cartacei. Ancora più tragica è la condizione di chi, appassionato ascoltatore, vorrebbe riviverla attraverso fonti specificamente musicali, insomma ascoltare.
    E smaschero il mio particolare interesse specifico. Il metronomo. Quel dilagare del metronomo in una società primitiva che il suo titolo lascia immaginare mi esalta concettualmente, perché rafforza la mia idea maturata secondo cui la musica vada suonata a tempo.
    Poi un’altra cosa: mi perdoni per il mio italiano incerto e precario. Qui mi trovo tra ultra letterati, figure autorevoli del panorama intellettuale. Io sono solo un povero biologo che si è appassionato di musica… mi capirà. Ma per sicurezza mi scuso.
    Cordialmente, anzi calorosamente
    Fulvio Porcellana

  3. Augusto Misolini says:

    Attendiamo il suo glorioso ritorno in Italia con ansia; direi quasi con asma, ad esemplificarne con viva e carnosa immagine il sentimento di noi tutti…

    A.M.

  4. giorgiotagliabue says:

    Non mi sottrarrò. Al mio ritorno in Italia, si avrà il mio modesto contributo.

  5. Armando Tomin says:

    Ai lùgubri miei giorni,
    Pensier che innanzi a me sì spesso torni.
    Di tua natura arcana
    Chi non favella?

    Sia codesto pensiero leopardiano un invito al nostro magistrale Ospite a darci un Suo parere: non si sottragga, o deschneriano estimator…
    AT

  6. Didaskalos says:

    Più che di pervicace affezione, trattasi di riscoperta in età adulta del valore della proposta cristiana, dopo anni di ricerca filosofica ed esistenziale, giungendo a una nuova consapevolezza di quanto spesso noi “iper-pensanti” o “iper-acculturati” tendiamo a elevare il nostro pensare a divinità, soffocando la voce che dal nostro intimo, assetata di infinito, cerca proprio quello che Gesù ci offre.
    La soluzione all’enorme complessità che gli uomini consapevoli vivono nel proprio pensiero, è invece semplice come il sorriso di un Bambino.

  7. Armando Tomin says:

    διδάσκαλος, una certa pervicace affezione al culto cristiano sembrerebbe appartenerLe. Erra forse, invero, il mio pensiero?

  8. Didaskalos says:

    Sono pienamente in accordo con il giovane studente: manca la gioia di Gesù! La Consapevolezza porta solo alla tragica scoperta che NON possiamo innalzare il nostro Pensiero a divinità, perché esso non è in grado di dare ragione né della nostra esistenza, né della nostra autocoscienza, né della Compassione che proviamo per la sofferenza dell’innocente, né dell’Amore, né della misteriosa risposta interiore che l’Uomo sperimenta a causa delle vibrazioni timpaniche prodotte da una Sinfonia, né, soprattutto, dell’ansia di Infinito che ci pervade.
    Gesù ha dato risposta a tutto questo, prima con Parole di inaudita Fratellanza, poi con la sofferenza provata personalmente, poi con la morte abbracciata integralmente, e infine con la Resurrezione che ci fornisce la Risposta Ultima.
    Non si tratta di una “consolazione” cui rinunciare credendosi troppo colti, consapevoli e adulti per accettarla! In realtà chi la rifiuta, nel profondo del suo animo vorrebbe con tutto il cuore che la Risposta di vita eterna, pienezza d’amore e di fratellanza offerta da Gesù fosse vera. Basta ascoltare quello stesso nucleo interiore che ci fa piangere ascoltando la Musica: è lui che trova in Gesù la risposta alla sete di assoluto che pervade gli uomini.

  9. Augusto Misolini says:

    Credo, o gentile Pargolo, di nome Francesco, al quale noi tutti diamo euforicamente il Benvenuto, che il Nostro Maestro volesse ciò ribadire, quale già lucidamente si evince dai suoi scritti della maturità: che Egli non è più una vittima che si dibatte disperatamente nella morsa del Destino; bensì, questo Destino è stato compreso nella sua superiore necessità storica, e pertanto dominato, non da ultimo con l’arma superiore di una profonda, mistica, ascetica, superiore Consapevolezza.
    In questo senso credo di poter interpretare la fase del Maestro come un Momento di natura, lato sensu, Religiosa.
    Accadde qualcosa di simile anche a Beethoven, se non mi sbaglio. E non è sicuramente un caso…

    A.M.

  10. Armando Tomin says:

    Caro, adorato, eletto studentuolo; gentile Maestro Tagliabuz, mi scuso se il mio allievo (forse il mio prediletto) le ha arrecato noia con la sua imberbe ingenuità. La questione posta tuttavia merita qualche riga pure da parte del Sottoscritto. Non posso far altro se non, da un canto, approvare le parole del nostro musicista;
    da un altro canto,
    o forse cantone,
    o canzone (o calzone?),
    ricordare a Franceschino la sua
    lezione.
    Già Nonno di Panopoli, riprendendo un concetto miceneo, poneva nell’emozione e nella meraviglia l’origine del pensiero. Oggi non è possibile citare quanto i Micenei ci hanno senza dubbio lasciato scritto in una lineare che ci è ancora impossibile decifrare… Ma impossibile non è (non ancora, in questa epoca di decadenza e di insufficienza culturale, quale non può che provenire da un insufficiente studio delle letterature morte) citare Aristotele: “Gli uomini, all’inizio come adesso, hanno preso lo spunto per filosofare dalla meraviglia [θαῦμα], poiché dapprincipio essi si stupivano dei fenomeni più semplici e di cui essi non sapevano rendersi conto, e poi, procedendo a poco a poco, si trovarono di fronte a problemi più complessi, come i fenomeni riguardanti la Luna, il Sole, le stelle e l’origine dell’universo.” (Trad. di Emanuele Severino) Il termine “meraviglia”, invero, costituisce una ben mediocre versione dell’originale greco, imperocché θαῦμα indica uno stato psicoemotivo ad elevata percentuale adrenalinica, quale la traduzione italiana non può esprimere; sicché la meraviglia è associata a una forma, pur nascosta dietro le quinte della mente, di paura. Questo concetto mirabile è contenuto anche in Platone: μάλα γὰρ φιλοσόφου τοῦτο τὸ πάθος, τὸ θαυμάζειν: οὐ γὰρ ἄλλη ἀρχὴ φιλοσοφίας ἢ αὕτη. (Platone, Teeteto 155d) [“Soprattutto tale intensità emotiva, tale meraviglia: questa, né altra, è l’origine della filosofia.” Trad. mia] Ed ecco la chiusa, nonché la chiosa: un meraviglioso poeta greco-turco contemporaneo, mio personale amico, descriveva così quello che, a suo dire, era l’origine della propria vis estetica e della propria forza creatrice, ossia il proprio pene: καὶ γὰρ θαῦμ’ ἐτέτακλο πενώλεον … [“Era un mostro gigante…”], dove ritroviamo, taumaturgicamente, il termine-chiave θαῦμα. Buona serata.
    AT

  11. giorgiotagliabue says:

    Caro Francesco,
    i dubbi e le certezza che esprimi nel tuo gradito commento, meritano una risposta, anche se chi scrive è sempre stato abbondante di domande più che di risposte. Meriterebbero una dissertazione (!) più lunga ed approfondita di quanto possiamo fare in questa sede, con le dimensioni di tempo e di spazio a cui siamo vincolati.
    Quindi, anche se il desiderio di ampliare questo spazio mi tenta, cercherò di limitare a pochi punti questa mia “risposta priva di risposte”.
    Vorrei, senza tediarti oltre misura, prendere in esame, prima degli altri, il concetto di pessimismo, così come viene espresso nella cultura dei nostri tempi. La quale ha edificato su questo termine una costruzione fittizia e fuorviante che, come altre, impedisce di vedere chiaramente al di là ed al di dentro delle cose.
    Il pessimismo e l’ottimismo sono condizioni dello spirito che non mi riguardano più da decenni. Personalmente opero una separazione tra chi è consapevole e chi non lo è.
    Potrei, come si usa fare per avvalorare le proprie parole, richiamare, a questo punto, stentoree voci dal passato. Voci più limpide di quanto non lo sia il mio piccolo squittire da nano, al cospetto dei giganti.
    Potrei citare Gramsci: “Il mio è il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”. O la Teoria critica di Horkheimer, che segue una regola fondamentale: “Attendersi il peggio e annunciarlo francamente, ma nello stesso tempo contribuire alla realizzazione del meglio”.
    Molti altri potrei citarti, in un elenco infinito, di “meravigliosi pessimisti”.
    Riesci, dunque, a capire quanto possa essere costruttivo quello che viene comunemente liquidato, da una visione aberrata della società in cui ci troviamo a vivere, come “pessimismo”?
    Forse Godot non arriverà mai. Personalmente ho smesso di aspettarlo.
    Camus impetrava una società nella quale gli “uomini che sperano”, venissero sostituiti con “individui pensanti”.
    Anch’io, nel mio piccolo sforzo quotidiano, cerco di sostituire alla speranza, il pensiero.
    E cerco di infondere, con il dubbio sistematico, quella consapevolezza che sola può essere in grado di modificare le sorti del mondo.

    La musica.
    Tu dici che la musica dovrebbe essere fonte di gioia. Se lo è, è la gioia delle lacrime.
    Conosco gran parte della creazione artistica musicale, almeno degli ultimi due secoli e mezzo. Ti assicuro che ben poca musica è stata scritta poiché dettata dalla gioia. La gran parte di essa è sgorgata da anime profondamente infelici; inadeguate al mondo ed ai tempi che attraversavano. Anime che hanno saputo annullare, sia il tempo che lo spazio in cui sono venuti a trovarsi, scolpendosi con il loro dolore, in maniera indelebile, nei nostri spiriti.

    La tragicità che mi attribuisci e l’infelicità che leggi sono frutto di consapevolezza, da un lato, e di compassione, dall’altro. Compassione che, secondo un etimo particolare, vorrebbe farci intendere di andare tutti, prendendosi per mano, “allo stesso passo”, senza dimenticarsi ed abbandonare, lungo il percorso, nessuno.
    Ma, tutto questo non mi fa vivere da “tristo figuro, ripiegato su sé stesso, lamentoso ed opaco”. Anzi, mi ritengo un privilegiato. Ma poiché non sono in grado di eliminare il dolore dal mondo, mi sono fatto carico di una parte di esso. Una ben piccola parte, forse, sperando di alleviare di un solo grammo il peso per tutti gli altri.
    Comunque, mi permetto (senza alcuna arroganza, credimi) di chiederti di rivolgere quella compassione che hai mostrato verso la mia tristezza, alle migliaia di bimbi che muoiono quotidianamente di fame e di inedia nel mondo, alle vittime di torture, di stupri e di violenze, agli animali, che a milioni vengono sacrificati sull’altare del nostro smodato, insaziabile appetito, alle etnie che scompaiono ogni giorno per rendere sempre più ricchi pochi squallidi individui, alle specie animali di cui siamo sempre più poveri, alle generazioni di giovani spazzate via da malvagie ed impudiche dittature e a tutto il vero profondo dolore che gli uomini riservano ad altri uomini. Unica specie che può essere definita “Un attentato a sé stessa”.

    L’entusiasmo per l’arte e la cultura si scontra, ahimè, con problemi di “vile contingenza”. Ricorda che l’arte che pratico io è l’unica che ha bisogno costantemente che funzionino, non solo gli esseri umani, ma anche gli apparati, le organizzazioni, la burocrazia ed altro. Potresti leggere le biografie di Toscanini e di Mahler (la mia figura al confronto si vaporizza) per scoprire quanto dolore c’era in loro nell’esplicare il loro straordinario lavoro.
    Per il musicista esecutore, un po’ mago e taumaturgo, vi è un vuoto, spesso incolmabile, tra la proiezione ideale dell’opera d’arte che ha in mente e ciò che la realtà fattuale riesce a riproporgli.
    Ma l’emozione dell’ascolto, si. Quella è sempre enorme, immensa, totalizzante. In essa mi perdo e mi ritrovo. Volo, roteo nel cosmo, viaggio nei meandri dello spirito. Amo e piango (!).

    Arrivando a quella che definisci “la gioia di Gesù”, mi guardo bene dal permettermi di parlarne.

    Personalmente credo nella Consapevolezza (uso il maiuscolo, come fosse una dea). Ad essa dedico la mia vita, il mio sforzo quotidiano e, perché no, anche le mie lacrime (ne abbiamo più di quelle che ci servono personalmente, diceva Guyot).
    Le consolazioni le ho abbandonate da tempo.
    È non hai idea di quanto ne sia fiero.

    Un abbraccio e un sincero augurio: Che i giovani, in cui credo fortemente, possano cambiare in meglio il mondo.
    Ma devono farlo presto.
    Il tempo sta scadendo.

  12. Francesco Pomidoro says:

    Salve,
    sono uno studente di quarta ginnasio del Liceo d’Annunzio di Pescara, e vado ogni lunedì pomeriggio a lezione di greco dal prof. Tomin, che è molto esperto di culture antiche, e ogni volta si intrattiene in lunghe dissertazioni (si dice così??!!) un po’ strane sui popoli antichi. lui le chiama paragmi e paralipomeni
    Oggi mi ha parlato di questo blog, e allora sono venuto quì!
    Bè, devo dire, ci sono cose interessanti
    però, posso permettermi??
    Quanto pessimismo! Quanta tragicità! Sembra una persona molto triste e disillusa, e questo mi dispiace molto……
    Dov’è finita la gioia di vivere, la gioia di Gesù, Cristo, la fiducia nel corso delle cose, l’entusiasmo per l’arte e la cultura???
    lei poi che è musicista, e ha la fortuna di potersi emozionare ogni giorno suonando e dirigendo le varie orchestre…

    tanti saluti,
    francesco

  13. Armando Tomin says:

    Mio adorato Augusto, mio gentile Ospite, chiedo venia: mi occorrerà qualche giorno per chiamare all’attenzione i miei scellerati scolari d’un tempo, acciocché commentino i quipresenti scritti. Né so chi, fra loro, saprà offrire altra Scienza a questo insigne consesso.
    Oserei esprimerLe un ulteriore dubbio riguardo al Suo asserto: “…scrivere per cullare il sonno del dio Malengfung”. Perché mai si dovrebbe scrivere per un motivo simile? Non mi fraintenda: ora vengo al ciò. Il Suo concetto è veramente affascinante e, debbo concederlo, mirabilmente racchiuso in una proposizione che nella forma si rifà alla pura tèchne aforistica, conciossiaché, a mio umillimo giudizio, la metafora, che provenendo dal suo divin creatore attraversa immensità sterminate di brughiera retorica fino ad arrivare al lettore (io, presentemente), non coglie in ultima sintesi, né con somma precisione, il cuore del concetto del quale l’intuizione, non oso dubitare, accomuna nuovamente Lei a Me. Il dio Malengfung richiama erroneamente una figura creatrice, quale solo in anni recentissimi (un par di millenni) è sorta, per opera dei pagani, dalle ceneri della vera fede latina. Nella mia opera “La moda del metronomo fra gl’Iapigi” ho dedicato una deca di pagine adoprandomi di far riaffiorare, ahimé sotto troppi strati di moderne polverosissime inique sterili devianti ricerche astrofisiche, il primigenio spaziotempo vissuto dai primi abitanti del nostro Mezzodì italico. Moltissime ere trascorsero da quegli scritti, ed oggidì posso senza la purminima esitazione sostenere, affermare e sottosiglare (come infatti farò!) che gli’Iapigi, possenti guerrieri venuti dall’Illiria e stanziatisi nell’odierna Puglia, non celebravano gli onomastici quotidianamente, bensì ogni 7 giorni. A tal punto, mio gentile corrispondente, ogni cosa è chiara e lampante: poiché una lunazione di 30 o 31 giorni (a piacere) non è giammai divisibile per 7, va da sé che questo meraviglioso popolo di illuminati inventò i raggruppamenti ritmici irregolari, tanto a cuore ai musici del secolo passato (e lo fecero, se non di fatto, assolutamente nell’intenzione). Le esprimo questi rari frutti del mio sconfinato lavoro di ricerca per arrivare a suggerirLe che la metafora della divinità creatrice, coincidente ognora con la figura del demiurgo che, uomo fra gli umani, riproduce dissennatamente l’atto creatore quando si dà all’Arte, non può coincidere con l’immagine di Malengfung, il quale per la sua stessa ingenerazione rimane privo di un termine di paragone che gli dia autorità e vita. Perché non sostituirlo con Tangotango, la divina fata polinesiana (ve n’è una meravigliosa effigie in un orecchino che ho molto lungamente analizzato in un volume fotografico cui collaborai, lustri e lustri or sono)? Tangotango, fata dedita alla solitudine, rapì e si fe’ fecondare da Tawhaki, avvenente guerriero e dio delle folgori. E non affine operazione compie il divino artista, quando, in preda al bassissimo desiderio di esprimere se stesso, procede alla ricerca del tempo perduto degl’Iapigi, nonché della forma magniloquentissima de l’Arte? L’arte è una violenza sessuale, l’arte è uno stupro. Ahinoi, codice naturale ognor infangato dalla tracotanza de’ mortali! Al mortale, dopo il misfatto artefatto, non rimane altro se non la vergogna ed il senso di colpa, nonché (già che lo stupro, secondo il mito, è compiuto da una femmina contro un maschio) un pargolo, simbolo di rinnovamento ma altresì pure di un’immortalità pagata al caro prezzo dell’Onore. Buona giornata.
    prof. AT

  14. Augusto Misolini says:

    Oh Armando!
    Quale Gioia! Quale Emozione!
    Benvenuto, e con tutto il calore io possa conferire alle mie vane, deboli e sterili parole, su questo straordinario spazio virtuale!
    Con l’auspicio che il Dibattito e i Confronto possano apportare un contributo spirituale a ciascuno di noi.
    Per il Benessere della conoscenza. Per l’Umanità. Per il Cosmo.
    A.M.

    p.s. Mi auguro che sarai lieto di invitare i tuoi alunni a diventare lettori abituali ed appassionati del Maestro Tragliabue

  15. giorgiotagliabue says:

    Gentile professore, caro Armando,
    quanti potremmo averne ancora di riferimenti comuni. Quanti meravigliosi incontri nel nostro percorso di vita. Incontri avvenuti su un sentiero. Incontri quando ci siamo persi, nel folto dell’intricata foresta esistenziale. Incontri nel buio della notte, quando i maestri si accostavano a noi, recandoci una luce. Lieti e disponibili ad accompagnarci in un breve tratto del percorso.
    Devo dire, però (e mi permetta di conservare dietro la piccola finestrella aborrita dal dio Momo, questi piccoli temporanei segreti) che i riferimenti non sono stati intuiti. Così vasto si presenta il campo dei Vladimir, dei James e via dicendo. Invece, credo abbia intuito, l’ultimo. Un Ernesto, che rimane impresso nella mente e nel cuore come l’unico. L’unico Ernesto, del quale, in siffatto disperato mondo, vorrei veder tornare a spandere il meraviglioso e romantico seme.

  16. Armando Tomin says:

    Krishnamurti, Malengfung… Quanti ricordi…
    Debbo al pregiato amico Augusto (oh!, suo pregio pure sì augusta nomea) il sacro vanto d’esser quivi, nel blog di un esimio sconosciuto, eppure in un blog interessante sotto vari e molteplici aspetti. Augusto (codesto savio) sollecitommi, esortommi, spronommi a “fare un salto”; e così, per un dedaliforme periglioso intricato iter virtuale (tale reso vieppiù dalla canizie immonda dei miei sopraccigli; oh!, tremenda vecchiaia, infida comar della Morte), quivi pervenni, e poso. Ma forse è bene, innanzi a tutto, presentarsi in fremente sintesi. La nomea mia Le dirà, ahimé, ben poco: professore liceale abruzzese, mi sono occupato a lungo di storia e cultura delle antiche civiltà, senza peraltro trascurare la prospettiva ed il sentire intellettuale che contraddistingue il nostro tempo, quale ben già è stato analizzato dal conoscente e collega Severino (in “La tendenza fondamentale del nostro tempo”, Adelphi, Milano 1988, pp. 185, € 23). Associo quotidianamente, ormai da lunghi equinozi, la lettura dell’“Ulysses” a quella della grande saga di Gilgamesh, a mio avviso il punto di autentico inizio del romanzo fiume moderno. I miei titoli, scritti in epoche remote ma tutti recentemente (ho atteso l’agognata pensione) editi da una casa editrice locale e (per mia esplicita ed accesissima volontà) non divulgati (ad onta delle pur numerose proposte) sui grandi circuiti nazionali, eppur altresì magari reperibili, non senza un pochino di sforzo, nelle biblioteche civiche, sono: “La moda del metronomo fra gli Apigi”, “L’impollinazione nell’area del Rubicone nella primavera del 49 a.C.”, “Il rigido mos maiorum culinario degli Hittiti”, “Il fenomeno della catarsi fra gli arbusti-Studi di estetica darwinista”; a questi si aggiunge la collaborazione come consulente al volume fotografico “Gioielli auricolari delle popolazioni autoctone polinesiane”. Ho scrutato, non grazie bensì malgrado le mie fosche cornee, il Suo recente scritto, ed ho lungamente apprezzato (a voce alta, beninteso) le Sue indubbie doti scrittoree. Fu Prometeo, per bocca del divino Eschilo a pronunziar il concetto: “Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore” (“Prometeo”, BUR, Milano 2006. A cura dell’amico Paduano, che mi ha opportunamente donata una copia). Non è Lei il solo, mio illustre corrispondente, ad avere appreso una tale amara lezione di vita. La Vita medesima c’indottrinò. Quante e quante fiate la Parola fugge fra le intenzioni de’ mortali, o trabocca dal sacro Graal che rappresenta l’umano intelletto? Troppe, veramente, troppe. Ho anche molto apprezzato (con esclamazioni spontanee) l’elogio dei Suoi modelli etici, nonché estetici, posto quasi in chiusura. Temo, altresì, d’aver indovinato tutti gli enigmi da Lei posti, veramente troppo docile Sfinge: Vladimir Nabokov, il più insigne autore comunista del secolo dianzi trapassato; James Butler, primo duca di Ormonde (conquistò l’Irlanda: terra remotissima, meravigliosa, e pur sì fonte di tanti dolori per i suoi fratelli inglesi); Karlheinz Foester, mitico giocatore della nazionale tedesca nel 1982, quando infine gli Italiani ottennero la vittoria (sono lieto di condividere con Lei questo immenso amore per il pallone! Ma Foester non mi risulta deceduto, nonostante i problemi di tossicodipendenza, com’è da tutti risaputo: che Lei si sbagli?); Gustav Flaubert, scopritore dell’umana miseria; Ernesto Che Guevara?…
    Prof. AT

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