Il Direttore d’orchestra: un animale in estinzione

   Quando informo sulla professione che svolgo, coloro che sono interessati a saperlo, vedo accendersi sul viso delle persone un’espressione che racchiude un connubio di ammirazione e una buona parte di invidia.
Molto presto mi sento in dovere, per profondo amore della verità, di ridurre alla sue reali proporzioni tale ammirazione e di cercare di cancellare completamente l’idea che, questo mio, sia un lavoro di pura ed estatica delizia.
Non è per niente così. Lo ribadisco con forze e con la consapevolezza di rivelare qualcosa in grado di distruggere la visione romanticamente ipocrita che ammanta di un’aureola di superumanità una professione che viene spesso seppellita sotto lo squallore di incapacità manifeste e che spesso meriterebbe di languire ai più bassi gradini dell’ipocrisia umana.
Quello del direttore d’orchestra, è un lavoro che spesso dovrebbe essere remunerato con un’ondata di pubblico dileggio. Subissato di risate, talvolta di schiaffoni e, in altre epoche, accompagnato da un invito a trovarsi, con due padrini, dietro le mura del convento delle Carmelitane scalze, avendo scelto l’arma per il duello.

Il direttore d’orchestra è il mestiere più facile del mondo. È uno dei bluff più frequenti nel mondo della musica. Esso è uno dei pochi mestieri che si può praticare anche senza saperlo fare. D’altronde, le orchestre (quelle si, sono piene di professionisti che spesso hanno dovuto dimostrare le proprie capacità, misurandosi con altri competitori, su valori reali e non così aleatori e fumosi come quelli della Direzione d’orchestra e con regole comuni del gioco) potrebbero ben condurre in porto un’esecuzione, senza il disturbo di un incapace buffone semi-epilettico.
Per essere direttore d’orchestra, basta avere famiglie famose alle spalle, amici importanti, potenti lobby sessuali, confraternite illegali, religioni monocratiche, logge sottoesposte ed è fatta. Ovviamente, servono anche orchestre “di bocca buona” e di orecchie dozzinali, prone all’incapacità manifesta dei loro “Guru”. Ma, coi tempi che corrono, più di tanto non si può pretendere.250px-Carlos_Kleiber
Grandi oncologi, chirurghi famosi, manager importanti, politici di grido, speakers televisivi, o quant’altro vi possa venire in mente da inserire nella categoria dell’intrallazzo, hanno regalato ai loro marmocchi, come si fa coi bambini capricciosi, posti di grande prestigio nelle Istituzioni musicali italiane. Non si potrà mai negare che “i figl so’ piezz’ ‘e core” e “al cuor non si comanda”, meno che mai nel paese che ha inventato il nepotismo.
E ovvio che, in mezzo ad una schiera di direttori incapaci, quelli  bravi abbiano pochissimo spazio per confrontarsi con “l’incapacità assurta a regola”. Sia per l’endemica riduzione delle orchestre sinfoniche, praticata in questa nazione di eunuchi musicali, sia per la riduzione dei finanziamenti attribuiti alle Istituzioni musicali, alla Cultura ed allo Spettacolo. Ed, infine, perché essi costituirebbero un elemento di paragone evidente, un metro sicuro su cui misurare “i’incapacità degli eletti”.
Ma torniamo a quello che è il mestiere più mistificabile del mondo e paragoniamolo a quelli, molto più “terreno”  e, spesso, meno ipocrita, di elettricisti ed idraulici.
La luce c’è o non c’è. Il tubo perde o no. Le discriminanti per stabilire se un idraulico o un elettricista sanno fare il loro mestiere le possediamo. Compreso quelle per stabilire se sono onesti o no.
Nella Direzione d’orchestra tutto questo non esiste per il normale ascoltatore contemporaneo..
L’orchestra va sempre a tempo, perché se il direttore è bravo, lo guarda e lo segue, se è un cane, non lo guarda e non lo segue. In questi casi sarà la Spalla, cioè il Primo violino ad incaricarsi di “tenere assieme tutti gli archi. Un segnale inquietante per l’ascoltatore sarà il vederlo agitarsi, molto più del dovuto. Più la Spalla si agita e meno fiducia al direttore è stata conferita dall’orchestra.
Un tempo si diceva che il più grande torto che un’orchestra potesse fare a certi direttori era proprio, “suonare come loro dirigevano”. Io chiamerei questa, una forma di giustizia naturale: “La giusta nemesi”. Che dovrebbe riempire di ignominia il “portatore della ciltroneria”. Purtroppo, però, se l’orchestra suona male, solitamente le si attribuiscono tutte le colpe, mentre,  se suona bene è merito quasi unicamente del direttore. Nell’ignorante società ipocrita, nella quale sguazziamo, la faccenda si ripete in questi scandalosi ed ingiusti termini.

Ma, è dato anche il caso che l’orchestra suoni intonata, suoni a tempo, suoni le note corrette, con dinamiche più o meno giuste. E che tutto ciò non corrisponda al sublime concetto del “fare musica”. Mettere le note una dietro l’altra nel corretto ordine rimane lontano alcuni Parsec e distante anni luce dal “mistico far musica”.

Fare musica è un atto mistico. È la preghiera di una religione sublime, che non ha bisogno di alcun Dio, se non di uno spazio nel quale praticare il suo illuminato “Panteismo dei suoni” ovvero diffondere quel sentimento che espande le nostre ridotte dimensioni corporee fino ad inglobare tutto il resto dell’universo. Un rito per uomini e donne pensanti che riescano a sentirsi parte di un Tutto naturale da cui nessun sforzo perverso o egoistico potrà mai separarci. Un Klangteismo che permetta agli individui, che non sono e non saranno mai “Un Leonard+Bernstein+Vienna+Philharmonic+LeonardBernsteinIntero”, di diventarlo, ricostituendo l’unità primigenia; l’Intero ricostituito attraverso il potere trasfigurante e trascendente della musica: unico e vero miracolo laico, di fronte al quale cadiamo in forme acute di profondissimo misticismo. E checché ne creda o ci abbia indotti a credere la Chiesa, con l’innumerevole quantità di menzogne straordinarie ,di banalità sciocche e infantili, di superstizioni condizionanti, di cui abbia riempito il nostro limitato intelletto, rifulge in tutto ciò una straordinaria verità: l’arte non ha bisogno di Dio. Meno che mai, la musica.

Come dicevo, quindi, niente delizia può derivare da un frammento del Tutto.
Sola esaltazione dello spirito ramingo è la riscoperta, l’incontro e la ricomposizione di quel Tutto che ne è l’essenza primigenia, la quale sola ne permette la trascendenza e la trasfigurazione nel “ewigkeiten Nichts”.

Ma nella Direzione d’orchestra non avverrà mai la completa trascendenza. Quella che si ottiene dall’identificazione del risultato fisico con la proiezione mistica impressa nella mente del Direttore. E sarà proprio questo minimo scarto di immagine ad impedire la consegna dell’opera musicale al vuoto cosmico.

Quanto dolore si riesce ad intuire in grandi direttori d’orchestra, nelle interviste rilasciate, quanta sofferenza, quanta insoddisfazione, quanto struggimento. Basterebbe, a tal proposito, leggere le biografie di Toscanini e di Mahler, tra i più grandi direttori di tutti i tempi, per leggervi tutto ciò.
Il “dopo-concerto” è sempre pieno di complimenti, di sorrisi, di esaltanti commenti e anche il direttore eticamente più evoluto, comprende che interrompere con la verità quella idilliaca fase di menzogna sarebbe un grave colpo alla propria credibilità.

Ebbene, come dicevamo, fare il direttore d’orchestra è una missione. È un viatico ricevuto da qualche grande ierofante musicale che ci ha insigniti dell’onere di diffondere la musica nel mondo. Acchè gli uomini, resi migliori dall’Urklang, riescano sempre più a ricomporre i propri spiriti.
È un compito difficile, faticoso e soggetto a profonde e frustranti condizioni di emarginazione e di ostracismo.itoscan001p1

Insegnare Formazione orchestrale (o Esercitazioni orchestrali, come venivano chiamate prima della nefasta riforma degli studi musicali) in un Conservatorio di Stato, contribuisce notevolmente ad aumentare la dose di sofferenza insita nel ruolo di docente, del quale non sono affatto soddisfatto di far parte.
Chi come me, proprio perché messo costantemente a contatto con le realtà dell’insegnamento e dell’apprendimento musicale, è costretto a costruire muri con mattoni sbrecciati, con poca consistenza, con poca malta, guarda con profonda invidia ai risultati ottenuti dai colleghi d’oltralpe, che essi siano: francesi, olandesi, tedeschi, austriaci    o dei paesi dell’est europeo. Tali realtà didattiche (per tacere di quelle esecutive) formano una sorta di baluardo, dietro il quale cerchiamo di eclissare i nostri sensi di vergogna.

Non esiste, in natura, un “organismo vivente” straordinario come l’orchestra. In essa è racchiusa tutta la perfezione che la natura possa permette a noi di riprodurre artificiosamente. Essa asseconda  “la disciplina del cosmo” e la perfetta convivenza germinale della micro nella macro-struttura.
Vista con le lenti di un microscopio o con quelle di un telescopio, l’orchestra riproduce le immutabili strutture musicali che fungono da sostegno per ogni costruzione artistica. L’orchestra riproduce il mondo, la vita, gli organismi unicellulari. Bellezza e ordine che James Hillman considera, con nostro immenso dolore, fuggite da questo mondo guasto, hanno scelto la musica per tornare fugacemente a farci visita; poveri indegni.

Non sempre, però. Soprattutto, non in una nazione da cui l’ordine, che porta con sé la bellezza e fuggito inorridito da tempo.
L’arte è lavoro. È impegno costante. È cesello. È mistica. È visione chiara del Grande Tutto, di quell’Anima Mundi di cui siamo parte inalienabile.
Ed è, soprattutto, disciplina. Quel connubio di attenzione, capacità di sofferenza, tensione, coscienza, rispetto per gli altri.

Troppo spesso confondiamo l’operazione di giustapposizione delle note in sequenza ordinata, con il “fare musica”. Madornale errore. Delitto contro la Verità che unica deve reggere l’opera d’arte.
Oramai, troppo spesso, gli italiani si sono abituati ad inghittire pallottole di sterco di Yak, credendole bigné al cioccolato. Un processo di mitridatizzazione dell’ascolto, cominciato alcuni decenni or sono. In concomitanza con il lavaggio delle stalle di Augia dei contenuti cerebrali e delle coscienze degli italiani.
Nel lavoro artistico, nel fare musica c’è una ricerca di verità che unica può reggere la costruzione sonora, l’organismo vivente musicale. Ma non è difficile rendersi conto che, ogni tipo di ricerca di verità, in questa nazione culturalmente e moralmente defunta, non viene caldeggiato da alcuno.
Troppo spesso si assiste alla falsificazione artistica. A spettacoli di indecente falsità. Summe della menzogna in arte che, a ben vedere, in questa miserabile realtà geografica e sociale, magnificamente si accompagna con la diffusa falsità del vivere quatidiano ed alla diffusa ipocrisia che regge i rapporti di questa dannosa specie animale.

L’altra sera, in un Auditorium cittadino, si è svolta, ancora per l’ennesima volta, la vergognosa farsa della “menzogna in musica”. Una sorta di “piccola scimmia sbracciante” si è esibita in un indecoroso spettacolo, peraltro ben riuscitole, di “disturbo” di una esecuzione della Terza Sinfonia di Mahler, a cui questa presenza, sorta di irritante intercapedine, fastidiosa ed ingombrante, è riuscita ad abbassare il livello dell’esecuzione orchestrale, che poteva esser molto dignitoso.
Il piccolo “sinantropo” ha fatto suonare l’orchestra “in apnea”, per due ore, impedendo a questa, con la sua scadentissima, meccanica e proditoria tecnica direttoriale, qualsiasi costruzione fraseologica. Che, per un musicista, equivale a “non fare musica”.
Forse le dimensioni, invero piccole della direttrice d’orchestra asiatica, l’hanno portata al tentativo di occupare il maggior spazio possibile, come succede agli iguana minacciosi, anticipando ogni respiro (in musica: ogni ritardo può essere giustificato; ogni anticipo è pura “antimusicalità) ed impedendo una lineare costruzione fraseologica “vitale”.
MAHLER FOTOHo ritenuto (per uno sporadico frequentatore dei concerti, quale mi sono ridotto ad essere) questa “sgradevole ed antimusicale esibizione ginnica, come un ulterore esempio delle “proprietà mistificanti” della Direzione d’orchestra.
Il buon direttore d’orchestra dovrebbe lentamente sublimarsi e divenire semitrasparente allo sguardo degli ascoltatori, restando una presenza amichevolmente vigile per l’orchestra, sulla quale il suo intervento non deve esplicarsi a tempo pieno, esaltandosi della propria figura da attore primario e del proprio ego smisurato.

Personalmente, cerco di trasferire agli allievi (di alcuni devo riconoscere le indubbie doti musicali, ma in pochissimi di loro rinvengo doti morali già formate) la sensazione di amore e di rispetto che dobbiamo trasfondere nell’opera artistica e che sole devono guidare le nostre scelte, abbandonando le smodatezze dell’ego o i condizionamenti di mode superficiali ed ipocrite.
L’arte come vocazione, attende sulla stessa isola lontana, su cui riposano Bellezza e Ordine.
Ne attendo il ritorno e cerco, con il mio piccolissimo contributo, di creare le condizioni perché, tali categorie dello spirito, desiderino ancora venirci vicine.

8 Responses to Il Direttore d’orchestra: un animale in estinzione

  1. giorgiotagliabue says:

    Caro Tomin,
    non intendo, con queste poche righe, esaurire un argomento così complesso, come quello da lei toccato, ma mi permetto di esplicitare alcune riflessioni che, al di là degli speciosi argomenti che vedono contrapposte “faziose fazioni” di deliranti adoratori e di feroci detrattori affrontarsi bellicosamente, permettano di rendersi conto delle reali differenze tra i due grandi musicisti che hanno condizionato la vita dell’opera lirica (o dramma musicale, secondo l’accezione wagneriana) del secolo XIX (e, per moltissimi versi, anche dei secoli a venire).
    Enormi differenze separano Wagner da Verdi. Il tipo di educazione, il contesto sociale, quello storico, culturale, artistico dei due è grandissimamente diversificato. Comporrei il mosaico anche con le tessere di tipo etnico, meteorologico, geografico e chiedo venia se tanto mi sfugge.
    Il contributo, poi, del pensiero filosofico e di quello psicoanalitico, agli albori, separano ancor più i due mondi. Se, infine, ricorriamo al mito, dobbiamo concludere che nulla accomunava i due autori, se non il far uso di una medesima tecnica compositiva (utilizzata, comunque, in modo molto differente) e di un comune lascito musicale da parte dei predecessori: Bach, Mozart, Haydn e Beethoven tra tutti.
    Wagner, uomo di profondissima e vastissima cultura filosofica, ha lasciato un’eredità all’umanità di immenso valore. Il messaggio trascendentale della sua Tetralogia, con le sue componenti filosofiche, sociali, psicoanalitiche e ateamente teologiche, costituisce ancora oggi uno dei lasciti artistici più grandi ricevuti dall’umanità. L’immenso rammarico è che, oltre ad aver costituito un vessillo per uno dei poteri più sconvolgenti che l’umano abbia espresso, la sua opera sia, a tutt’oggi, di difficile fruizione, senza un’adeguata preparazione.
    Verdi, che non ha mai inteso mettere in guardia l’umanità sul proprio ineluttabile destino, ha scritto pagine, di rara bellezza e di più facile godibilità per l’uditorio, che non hanno e non avranno mai l’universalità e l’apertura cosmica delle opere di Wagner.
    Vorrei che queste poche righe (parziali e indegne se confrontate con quanto scritto sul musicista di Lipsia da migliaia di studiosi) evidenziassero solo un fatto, in parziale risposta alla sua domanda: le differenze ci sono e sono abissali, a mio avviso. Questo, senza esprimere un giudizio di valore su quanto prodotto dai due.
    PS. Ha perfettamente ragione. L’anniversario comune ha scatenato migliaia di “parolai” che amano sentire il suono della propria inutile voce o leggere gli inutili scritti, grafitanti il loro inutile pensiero.

  2. Caro Tagliabue,
    mi consenta di subire il fascino di queste tematiche musicali e di porgerLe un quesito specifico in quest’anno di commemorazioni. Mi sono sempre chiesto che cosa spingesse Verdi e Wagner verso piedistalli antitetici: c’è forse della sostanza in questa tradizionale opposizione, che non sia, per l’appunto, una distorsione mediatica (cui, forse, in qualche misura gli stessi protagonisti hanno messo l’opera/Opera!) tramandatasi fino a noi?
    Con stima profonda
    AT

    p.s. E’ chiaro che un duplice anniversario è il peggior momento per far quadrare il bilancio della Storia. Bisognerebbe trovare altri spazi (non troppo pubblici), altri momenti (non così sospetti), altri argomenti. Mi farebbe piacere che su questo Suo blog si potesse “di-vagare” e mettere piede su un vergine Altrove dei contenuti e delle forme.

  3. Fulvio Porcellana says:

    Gentile Alessandro,
    al termine di un lungo dibattito interiore sulla questione che più e più volte mi ha flagellato nella mia lunga “carriera” di ascoltatore solitario, giunsi alfine ad una conclusione, sia pur precaria e che, nello spirito del nobile Cioran dal Maestro mirabilmente richiamato alla memoria di tutti, mi riservo comunque di modificare pur essendone piuttosto convintamente persuaso: il direttore d’orchestra è come la protrombina.
    Uno zimogeno cioè (enzima passivo) senza il quale la coagulazione del sangue sarebbe in nessun caso possibile.
    Similmente, senza un direttore d’orchestra, un’orchestra seppur valida subirebbe irrefrenabili (e letteralmente) emorragie al primo intoppo. Inoltre la fluidità spirituale della musica, caratteristica irrinunciabile della stessa, ed in questo mio intervento paragonabile alla corretta fluidità degli eritrociti, verrebbe tragicamente intaccata senza la figura di un valido conduttore-enzima.

    Distinti saluti
    Fulvio Porcellana

  4. giorgiotagliabue says:

    Gentile Alessandro,
    vorrei, prima di esprimere un mio parere, far precedere le mie parole da un aforisma di Emil Cioran, un filosofo che ha accompagnato una parte della mia formazione spirituale, che dice: “La conversazione è feconda solo tra spiriti dediti a consolidare le proprie perplessità.”
    Con questo voglio solo dire che quando sento due verità che si contrappongono in modo molto deciso e perentorio, cerco di operare una sorta di “mediazione”, fors’anche in virtù del fatto che, più importante della verità, c’è solo la ricerca della verità.
    In questo anno, in incontri o conferenze sull’argomento “Wagner”, ho assistito a forti contrapposizioni tra i due partiti, quello di Wagner e quello di Verdi. Entrambe le fazioni lottavano per dimostrare che l’uno era più grande dell’altro, allontanandosi, in tal modo, da un percorso di ricerca di una qualsiasi verità. Ammesso che ve ne fosse una, da trovare.
    Questa noiosa premessa vuole solo giustificare il fatto che io non mi senta in grado di attribuire la palma dell “verità” a nessuna delle due tesi che hanno visto te contrapposto ai tuoi amici “conservatoriali”. Ma mi permetto brevemente di argomentare la mia affermazione, pur non avendo visto il concerto oggetto della vostra simpatica diatriba, né aver riletto il mio scritto.
    Il direttore d’orchestra è (o dovrebbe essere) un musicista di altissimo livello (oltre ad altre innumerevoli caratteristiche) il cui lavoro sia indispensabile per il corretto funzionamento dell’organismo orchestrale. Tu (mi pare di ricordare) parli di centinaia di strumentisti e già un tal numero prevede la quasi totale impossibilità di suonare correttamente insieme senza la figura del direttore. Molti strumentisti, nelle posizioni in cui si trovano in orchestra, divengono assolutamente “sordi” a tutto ciò che viene prodotto oltre i 2 o 3 metri da loro. Alcuni hanno posizioni decentrate rispetto al nucleo orchestrale. La fisica degli strumenti (tempi di emissione e produzione del suono differiscono da strumento a strumento) e la stessa fisicità degli strumentisti (respiri, attacchi, motricità muscolare, ecc.) sono diversi per ogni strumento.
    Quindi: il direttore (bravo!) è molto importante.
    Poi ci sono i numerosissimi casi di “falso in atto pubblico” che vengono perpetrati da direttori d’orchestra incapaci, che divengono dannosi (e, in tal caso, l’orchestra suona ugualmente, ma, invece che guardare l’incapace, guarda “il violino di spalla” il quale, solo per ciò che riguarda gli attacchi collettivi e i tempi, riesce ad evitare la debacle. Ma, così facendo, riporta l’orologio dell’arte indietro di circa due secoli.
    Questo ti fa anche capire che i direttori che dirigono musica prima di Haydn, oltre che inutili (come sostiene la tua tesi) sono anche dei cialtroneschi mistificatori.
    Spero di esserti stato utile.
    Con simpatia
    Giorgio Tagliabue
    NB. L’argomento meriterebbe un intero trattato, quindi “blame on me” per averlo liquidato così velocemente, ma non sopporto di far tardare le risposte a chi mi pone domande.

  5. Alessandro says:

    Gentile Tagliabue.

    Sono sincero, non la conoscevo prima di leggere quanto da lei scritto in un modo che mi ha affascinato a tratti, per stile e forma. Sono capitato casualmente su questa pagina, per documentarmi in merito ad una questione che non conoscevo se non per ipotesi fatte tra me e me. Tali ipotesi le ho sostenute con vigore qualche giorno fa avendo una discussione tra amici nata da una mia affermazione dissacrante, espressa mentre in TV si guardava un’orchestra fantastica di un centinaio tra musicisti e coristi che si esibiva alla Scala.

    Il parere incriminato è il seguente: IL DIRETTORE D’ORCHESTRA POTREBBE ANCHE NON ESSERCI DURANTE L’ESIBIZIONE IN PUBBLICO; I MUSICISTI SONO COSì PREPARATI E PROFESSIONISTI CHE SAREBBERO IN GRADO DI CONCLUDERE EGREGIAMENTE L’ESIBIZIONE PUR IN ASSENZA DI UN DIRETTORE.

    Con questa mia frase ho scatenato l’inferno tra i miei amici diplomati al conservatorio o musicisti in piccole bande locali.

    Sono estremamente ignorante in materia, ma di questo fatto sono inspiegabilmente convinto. Non volevo dire che il Direttore è inutile, io volevo solo dire che in quell’occasione potrebbe non risultare indispensabile.

    Egregio Tagliabue, gentili signori che avrete voglia e più competenza per rispondermi, potreste dirmi la vostra?

    Grazie mille, Alessandro Oliva. DOTTORE COMMERCIALISTA:)

  6. Fulvio Porcellana says:

    Buonasera,
    l’ormai vecchio e sempre caro Augusto Misolini mi ha alfine convinto, dopo avermene a più riprese parlato, e con un entusiasmo che difficilmente le saprei descrivere, ad intervenire su questa rassegna virtuale.
    Egli vorrebbe, parole sue, quì creare un luogo in cui far rinascere la cultura in Italia. Certamente traguardo utopico, ma non per questo da biasimare nel suo vano sforzo.
    Mi presento dunque, come si conviene alle solite, collaudate, e pure pedanti me lo lasci dire, formule di rito.
    Sono un ex-collega di Augusto in pensione, professore liceale che, questo forse il punto che particolarmente può legarmi a lei (se affettivamente, si vedrà), ben presto ossia all’età di trentanni capì di aver commesso quello che una femmina delle attuali generazioni chiamerebbe con leggerezza ma senza grazia “l’errore della mia vita”: non essermi dedicato alla musica.
    Appassionato fin da bambino di musica classica, venni iniziato dai miei apprensivi genitori (sempre lo furono nei miei confronti) alla chitarra intorno all’età di 12 anni, sempre detestando questo strumento. Sotto l’egida dell’obbligo familiare, continuai per qualche anno e senza slancio lo studio di uno strumento che sempre ho trovato, continuo a trovare, e sempre troverò, mostruosamente limitato, così incapace di esprimere le umane emozioni.
    Fu così che nacque la mia adolescenziale idiosincrasia nei confronti di quella musica che pur da bambino bramavo.
    Una idiosincrasia che mi portò per altri lidi, a compiere senza particolare affezione studi di biologia, peraltro non conseguiti brillantemente per via di alcune devianze.
    Quando poi mi ritrovai in un putrido liceo classico ad insegnare una materia come scienze naturali, sistematicamente ignorata, depauperata, quando non derisa da presunti pseudo-letterati adolescienti, le lascio immaginare la frustrazione ed il senso di annichilimento della mia dignità, di uomo e di figura professionale.
    Fu in quel periodo, anni nei quali peraltro mi rassegnai ad una completa solitudine, anche ma non solo per via di alcune peculiarità caratteriali che mi rendono effettivamente, pare, di difficile sopportazione, fu in quel periodo dicevo che capii quanto la musica possedesse una capacità di redenzione. Ma solo attraverso l’ascolto, mentre il fatto di suonare imputridisce, per il dover “mettere le mani nella pasta”: come ogni cosa oggetto di passione, quando diventa professione perde di poesia.
    Quindi il punto è questo, questa la mia tardiva consapevolezza: io dovevo dedicarmi alla musica, ma da teorico.
    Mi misi quindi ad ascoltare a più non posso, ogni giorno, ogni sera lungamente, con il mio fedele giradischi (mai oggetto più passionalmente amato vi fu nel mio polveroso isolamento di casa). E ho ascoltato di tutto, mi creda.
    Anni e anni di dolorosa solitudine trascorsi nella mia sala di ascolto, che ho voluto piccola, 1 metro e mezzo per 3. Il ricavato di uno sgabuzzino, per obbligarmi alla semi-paralisi durante le ore di ascolto, profondamente persuaso in questo modo di raggiungere maggior concentrazione.
    Ho inoltre perseguito una politica interiore – assolutamente rigorosa e coerente come mai altra cosa fu nella mia vita – di completa indifferenza verso tutti gli storici della musica e i musicologi, convinto dalla necessità di non farsi da essi influenzare o meglio traviare nella formazione delle opinioni sui vari compositori, ed elaborando in questo modo delle personali teorie sulla musica e sulle musiche, delle quali vado a tratti fiero e a tratti vergognandomi.

    Ora, lei non si faccia impressionare dalle mie lunghe autoanalisi (fors’anche deliranti?? mi dica…).
    Questo è: sarei lieto di conversare di musica con lei.
    Finalmente in maniera pubblica, disillusa, e perchè no senza freni morali.
    Può essere il luogo.
    Saluti a lei e al caro Augusto
    Fulvio Porcellana

  7. giorgiotagliabue says:

    Salve Francesco, come potrei risponderti, senza rendere ancora più complesse e varie le problematiche? Come sempre, deposito nei miei scritti molti soggetti, che avrebbero bisogno di trattati ad hoc, ognuno di essi. Cerco, comunque di dissipare i dubbi o di confermare le tue impressioni, in riguardo alla posizione del mio spirito.
    Ti chiedi, se io sia incattivito. Credo che le categorie di “buono” o “cattivo” mi interessino poco. Mi coinvolgono molto le categorie di “giusto” o “ingiusto” che ho sviluppato nel lungo percorso della mia formazione spirituale. Quindi: posso anche diventare “un feroce oppositore” di ciò che ritengo “ingiusto”. Se poi questo può essere definito “cattiveria”, ebbene, accetto la definizione.
    Il problema fondamentale è che tutti noi ci troviamo ad operare in un mondo che ha perso di vista l’etica, che è il metro con cui confronto ogni giorno il mio agire: quello personale o quello professionale, non fa differenza. Mi misuro quotidianamente col sublime e con l’infimo: non è facile.
    Se voi giovani riuscirete a ristabilire regole comuni e a comprendere che è interesse primario il rispettarle ad ogni costo, forse potrete porre rimedio ai danni che una generazione perdutasi “nel gusto del potere”, come la mia, ha provocato.
    Ti saluto con grande simpatia.
    E, se ne hai voglia, raccontami di te.

  8. Francesco Pomidoro says:

    Salve prof,
    questo tema che ha scritto è interessante…. Interessantissimo direi! Però mi posso permettere?
    Lei sembra incattivito verso il suo mestiere. E non ho capito il nocciolo. Qual’è il problema? Sono i suoi alunni? Sono così poco studiosi? Oppure è colpa degli altri prof? Il prof Tomin anche se è in pensione si lamenta dei suoi ex colleghi e a volte non parla di loro… ecco diciamo…… proprio così bene!!! Ahahaha
    E per noi giovani non c’è proprio nessuna speranza? Siamo così asini!!!!!

    tanti saluti,
    francesco

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