Il tempo e la memoria

Il tempo e la memoria sono antagonisti.
 Si fronteggiano da sempre, cercando di prevalere l’uno sull’altro.
 Il primo, allontanando da noi i lamenti che la storia ci tramanda. Cercando di affievolire il grido dei sofferenti che, monito alle generazioni a venire, agisca da freno alle ambizioni dei potenti. L’altra, tentando di trasmettere la conoscenza del dolore e, attraverso di essa, la capacità di resistere alla tentazione di dirimere le questioni con la violenza.
 La conoscenza del dolore. Non già il dolore, intrasmissibile per fortuna, o forse per somma disgrazia, del genere umano.
 La conoscenza intellettuale e l’esperienza soggettiva, sono forme di conoscenza profondamente diverse.
 Uno dei due contendenti, di questa eterna disputa, è molto più forte dell’altro. Fa uso di armi subdole, che agiscono senza farsi percepire. E non c’è forza che riesca a contenere le nebbie caliginose che il tempo fa scendere, lente ma inesorabili, sulle vicende umane.
 Non c’è antidoto per il laudano che, instillato con paziente lentezza, stempera i colori accesi dei dolori, ottunde rimorsi e rimpianti, abbassa le luci della storia, con la grazia di una dolce e pietosa crocerossina.
 Ma non c’è capitolazione da parte dell’una, né trionfo da parte dell’altro. Solo un tragico, eterno combattimento, nel quale si configura una sola vittima: l’uomo.
Del tempo sappiamo tutto ciò che ci serve sapere. Il resto lo lasciamo alle speculazioni filosofiche.
 Della memoria, invece, dobbiamo scoprire ancora molto.
È cosa assai complessa, la memoria. Già ne risulta complessa la definizione.
 Il termine. così ampio e, al tempo stesso, riducente di “cosa”, non rende ragione allo sforzo che tentiamo di fare per recuperare il significato della stessa. Forse la memoria è più paragonabile ad un organismo: un complesso organismo. La memoria è il contenitore o il contenuto? O, forse, l’uno e l’altro.
 Poiché le domande sono, da sempre, più importanti delle risposte, cerchiamo, attraverso le funzioni del pensiero, di far emergere i dubbi, tentando di stimolare la crescita, con il consolidarsi di tutte le nostre perplessità.
Gli scienziati sanno perfettamente dov’è situato il contenitore. Ne conoscono la posizione e la composizione. Indagano su aree, lobi, neuroni, assoni, sinapsi, potenziale elettrico e via dicendo in una caleidoscopica esposizione di risultati oggettivi, molto spesso, di inconfutabile evidenza.
 Ma, il dolore, sottile come un ago, che accompagna il ricordo di una persona amata; persa e non più ritrovabile. Il leggero senso di nausea e la sensazione che la nostra pancia sia stretta in un pugno, così strettamente associato al ricordo, dove giace?
 Dov’è il risultato di quell’atroce sottrazione che vede togliere alla memoria la realtà del presente ed offrire come risultato la nostalgia. Il dolore per il ritorno. Il dolore del desiderio che, in un tempo e in un luogo indeterminato, si possa tornare ad un momento che, nella memoria, ci si ricorda felice. Forse felice, proprio perché mediato dal tempo che, in qualche modo, sublima, trasforma e decanta.
 Dove ritrovare il percorso che ha condotto alla rinuncia delle menzogne consolatorie: religione ed ideologia, sopra a tutte le altre.
 È forse la memoria una roccia sedimentaria? Oppure un invaso, riempito di materia liquida, nel quale ogni pioggia fornisce il suo apporto, miscelandosi con quella già esistente, divenendo indistinguibile: acqua di ieri mescolata a quella di decenni or sono, con le giornate di sole, che avranno fatto evaporare parte di quel liquido. Oppure nulla è destinato a scomparire veramente? Né dal mio invaso, né da quello archetipico e primordiale.
E se veramente fosse roccia? La stratificazione sarebbe così compatta da non permettere di identificare i vari sedimenti.
 Se un giovane ha la certezza di essere ciò che crede di essere, per una ragione che gli risulta ben precisa, che lo ha spinto, lo ha forzato in una certa direzione, una persona anziana non riesce a ritrovare gli innumerevoli scossoni, le spinte, gli scarti, a cui è stata sottoposta la propria coscienza.
 Così, se è vero che dobbiamo diventare ciò che siamo, è altrettanto inconfutabile che dobbiamo essere ciò che diventiamo. Ma, cosa siamo? E come lo siamo diventati? O, forse, crediamo di essere diventati “qualcos’altro”, ma, anche se biologicamente siamo diversi da un milione di anni fa, psicologicamente, interiormente, soggettivamente, siamo più o meno quello che eravamo allora: barbari, crudeli, violenti, competitivi ed egocentrici.
 Il tempo è un mulino a vento, a cui non manca mai la brezza. La sua macina è sempre in movimento, pronta a ridurre in polvere ogni cosa che le passi accanto. E tutto, prima o poi, transita dalle sue parti. 
Il cavaliere dalla triste figura, l’hidalgo delle follia, lo identificò con il gigante che, esercitando un perverso potere, teneva prigioniera la tenera, fragile e delicata fanciulla, bisognosa di cure e attenzioni costanti per sopravvivere: la memoria.
Ma la memoria è anche negazione. Negazione della violenza, della sopraffazione. Negazione dello Schwarze Milch di Celan. Negazione del dolore.
 Che cosa meravigliosa. Se negare il dolore avesse il potere taumaturgico di cancellarlo dalle nostre vite? Azzeriamo la memoria. Cancelliamo tutto il dolore del mondo, perché dolore e memoria compiono il loro tragitto, sostenendosi a vicendevolmente, come due stanchi viandanti, che hanno percorso tanta, forse troppa strada.
 “Wir sind so wandre müde, es ist etwa der Tod,” intona nel suo ultimo sublime canto di addio alla vita Richard Strauss. “Siamo così stanchi di vagabondare, sarà forse questa la morte? ”
Stanchezza e morte convivono. Dolore e memoria, stanchi viandanti, hanno accompagnato il tempo, fino sul limitare del giorno. Sono stanchi entrambi, ma il canto che intonano è una flebile nenia araucana. La memoria del dolore vuole riposare. Ma come? Abbandonarsi al sonno ristoratore, alla quiete del sonno senza incubi, senza che il dolore penetri, come uno stiletto avvelenato, nel suo corpo?
Vogliono dire che la loro strada sta per finire, così come la nostra. Presto dovremo rinunciare alla loro ingombrante compagnia. Dovremo abbandonare i nostri primitivi feticci, siano essi di legno, ferro e protocarne, siano essi totem fossilizzati o reperti di altri mondi, altre vite, altre culture. Dovremo avere un unico corpo, immenso, onnicomprensivo, con cui convivere. Ci sussurrano che esiste un domani, solo se la memoria del dolore non avrà più ragione di esistere. Ci sarà un domani solo se svuoteremo del dolore, il presente, solo se bandiremo la violenza dalle nostre vite, solo se bandiremo il furto dei diritti dalle nostre esistenze.
 Perché l’Apocalisse non arriverà con cavalieri furiosi, non con squilli di trombe, “Non con uno schianto perirà il mondo, ma con un lamento!”
 Ai lamenti si deve porre orecchio, benché flebili e lontani, benché di bimbi e vecchi, benché di malati e sofferenti, benché di miseri e reietti.
 Solo allora, la memoria potrà riposare nel vecchio cimitero sulla collina, con i caduti di tutte le guerre, con le vittime della barbarie, con i sacrifici umani del potere. Solo allora, nessuno sarà più straniero su questo minuscolo pulviscolo di universo. Solo allora, intoneremo con letizia, il canto di Keats: “Chiama il mondo – La valle del fare anima -. Solo allora capirai a cosa serve il mondo.”

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