Io resto qui

Gustav Mahler

Ersterben.

Così si conclude la IX Sinfonia di Gustav Mahler.
La radice sterben è verbo e sostantivo che indica, senza alcuna possibilità interpretativa, l’atto conclusivo dell’esistere: la morte.
 E la morte è la presenza costante della Sinfonia N.9, così come di molte delle composizioni di Mahler. Quella morte che, dopo averlo accompagnato come presenza costante per l’intera sua esistenza, gli spalanca le porte del Nulla all’alba dei suoi cinquant’anni. Una quarantina d’anni prima dei quasi coetanei Strauss e Sibelius.
 Ma la stessa morte, può assumere accezioni diverse o ammantarsi di componenti varie, dall’orrore alla desolazione, dalla delizia dell’abbandono all’estasi della volontà.
 Quella stessa morte che, danzando sulle due note la e si del IV Movimento della III Sinfonia, interroga, con le parole dello Zarathustra di Nietsche, nella notte, l’ignaro sognatore.
 Nato nel 1860, Mahler appartiene, come accennavamo, alla generazione di Richard Strauss e di Jean Sibelius, ma conclude la sua permanenza terrena all’età di cinquantun anni, mentre Strauss sarebbe arrivato agli ottantacinque (1949) e Sibelius ai novantuno (1957).
 Nel corso della loro lunga vita, questi musicisti hanno visto le proprie musiche entrare, a buon diritto, nei repertori delle maggiori orchestre del mondo. Il caso di Mahler si configura in modo completamente diverso e fa assurgere alla sua profezia: “Mein Zeit wird kommen” un che di transumana preveggenza.
 Sicuramente più moderno dei suoi due coetanei, incontrò una forte opposizione, convalidata anche dalla sua precoce scomparsa.
Eccezion fatta per alcuni amici ed allievi o per qualche raro estimatore, che si prodigarono apostolicamente per diffondere la sua musica, essa fu quasi dimenticata per lungo tempo; fino agli anni ‘60.  Ad avvallo di questa tesi, basti pensare che Arturo Toscanini, che nella sua lunghissima carriera di musicista ha diretto opere di quasi tutti i compositori del mondo, contemporanei o meno che fossero, non diresse mai una sola opera di Mahler, giudicando la sua musica, triviale e volgare.
Grandezza e miseria del grande genio musicale di Arturo Toscanini.

“Se non posso trovare un senso alla mia vita, sono sgomento, come posso confrontarmi solo con la mia nullità?”
 Nessun segno di salvezza, nessun raggio di luce. Nulla che giungesse ad illuminare il titubante cammino nell’”Antro del Nulla” di quest’uomo.
 Ad onta delle dilanianti contraddizioni della sua problematica visone esistenziale, Mahler seppe creare con la sua musica quella luce di cui aveva bisogno per avanzare e quei segni di salvezza di cui si doveva nutrire il suo cammino. Poco o nulla esiste, nelle altre arti, così profondamente connesso con i fondamentali problemi dell’esistenza umana, come nelle ultime opere di Mahler.
 La principale esigenza dell’uomo era di trovare una conferma a sé stesso attraverso “il riflesso della creazione artistica” trovando così conferma della propria esistenza. Come dice Jack Diether, Mahler fu il primo musicista esistenzialista e forse fu l’unico di tale specie.
 Nella sua musica noi percepiamo realmente “le viscere dell’esistenza” che si collegano a noi attraverso legami fisici più che intellettuali. Il simbolismo di questa ricerca si fonda sulla esigenza di “vedere ed essere visto”.
 Una profonda connessione tra l’esigenza di “avere un senso” per essere riconosciuto come facente parte del consesso umano, e quindi “visto” e, di conseguenza, “confermato”.  Quella conferma di cui, disperatamente, si nutre, fino all’ultimo istante di vita, quando canta mestamente: Ich stehe hier und harre meines Freundes, Ich harre sein zum letzten Lebewohl…
 Sto qui e aspetto il mio amico. Lo attendo per l’ultimo addio…

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