Del silenzio

Chi scrive queste righe, personalmente vorrebbe che il proprio pensiero si potesse librare al di sopra del marciume che lo circonda. Vorrebbe poter discorrere di amore, di solidarietà, di arte, di natura, di bellezza, di meraviglia, di emozioni che nutrono l’esistenza. Vorrebbe che i sorrisi lubrichi dei “rappresentanti istituzionali”, dei tanti esseri spregevoli, che inondano, come viscido liquame, gli schermi televisivi, i cartelloni pubblicitari, i quotidiani, le riviste e, proditoriamente com’è nella loro natura, anche le cassette della posta, non arrivassero a contaminarlo, come un pestilenziale virus, in ogni ora del giorno e della notte.

Uno splendido airone
Chi scrive vorrebbe che questi laidi sorrisi, emblemi protervi del potere politico, corrotto e corruttore, non avessero la capacità di riportarlo, così violentemente, ad una realtà, possente e osceno buco nero di squallore, dal cui gorgo gravitazionale nessun pensiero sublime riesce più a riguadagnare la luce.
 Chi scrive vorrebbe poter guardare in alto; il cielo, le nubi, le facciate dei palazzi d’arte, le fronde degli alberi e si vede costretto, invece, a tenere gli occhi incollati a terra per evitare di inzaccherarsi i piedi nel putridume esondato da tanta “quotidiana istituzionalità”. Un immondo liquame esondato dalle loro “fecali esistenze” nelle nostre.

I miei maestri non sarebbero contenti di me.

Coloro che mi hanno aiutato a forgiare il mio spirito nella disciplina, nella resistenza, nella temperanza, nella compassione, nella coerenza, nell’onestà intellettuale; cosa direbbero della mia rabbia e della mia stanchezza?
 Sarei accusato di aver dato troppo spazio al pensiero e non potrei controbattere a tale loro affermazione.
È vero, confesso: sono colpevole. Le quotidiane nefandezze, da cui mi sento assediato, trattengono al suolo il mio spirito e gli impediscono di tentare di accedere a quel livello superiore nel quale si contempla la natura e l’arte con la mente di un fanciullo.

Da molti anni non parlo o scrivo più per convincere. Convincere era un atto di megalomania, un tentativo di esaltazione del proprio ego, un esercizio occulto di potere, sull’altare del quale veniva spesso sacrificata la Verità. Una pratica perversamente eristica, per manifestare il proprio potere sugli altri. Per convincere, si doveva essere convinti, a meno di praticare la subdola arte della maieutica, ed avere convinzioni era una condizione prettamente giovanile. O patologicamente senile.
 Sono certo (ciò non vuol dire che io non cada più in tentazione) che nel tentativo di convincere altre persone della giustezza delle proprie tesi, si occulti, nel proprio agire, qualcosa di profondamente sbagliato, addirittura di perverso, che rischia di rendere erronea anche la tesi più pura e rigorosa.

Da molto tempo, quindi, uso riflettere ed articolare i miei numerosi dubbi, spesso in pensieri segreti, talvolta a voce alta o talaltra sussurrando ad una pagina scritta, come in questo caso. Spesso, però, la penna cade e la lingua resta inerte, circondando il pensiero con “la mistica del silenzio”, per purificarlo dalla contaminazione del verbo.

Credo nel dubbio. È l’ossimoro, l’antitesi di una vita. Credere nel dubbio è come affermare, in qualche modo, che si crede di non poter credere.
 Credo, altresì, che alcuni dubbi siano indotti e siano giustificati solo dai limiti di cui la natura ha dotato l’animale uomo e di cui alcuni poteri terreni si sono nutriti, accresciuti e irrobustiti a dismisura, con maligna genialità.
 Ne consegue che alcuni dubbi, fonte di ambascia per gli esseri umani, mi lasciano completamente indifferente.
 Dio, la vita ultraterrena, quella eterna, le finalità, il dolore, l’infelicità, la morte. I grandi misteri dell’esistenza: tutte vecchie strade, sconnesse, franose e fangose. O linde e pulite, ma zeppe di gente alla ricerca di verità a buon mercato.
 Quindi, proprio per quell’avversione che da sempre nutro per qualsiasi forma di catechesi, laica o religiosa che sia, le mie si configurano, quindi, come riflessioni, che una persona più intelligente di chi scrive, qui ed ora, terrebbe ben chiuse nella propria testa e che io, ipodotato iposapiente iperconsapevole, in momenti di debolezza, lascio, con inaudita violenza sul silenzio in cui dovrebbero essere vergognosamente custodite, che scivolino su queste pagine che, sinceramente, mi auguro siano sempre poco lette.

Rifletto.
Rifletto per vivere. Rifletto per non abbandonarmi alla follia che, in agguato dietro ogni albero, nell’intricata foresta della conoscenza, seduce e poi divora gli esseri umani che tentano disperatamente di sfuggirle.
 Splendida ammaliatrice la follia, tra le cui braccia si stemperano gli squallidi deliri della normalità. Radiosa mantide che nell’afflato della sua copula assassina, esaurisce la sua tribale estasi cannibalica.

Esprimo.
O meglio, tento di esprimere. In assonanza con Beckett, più di mezzo secolo dopo, affermo che: “Non c’è niente da esprimere, niente con cui esprimere, nessuna capacità di esprimere, nessun desiderio di esprimere, insieme all’obbligo di esprimere”. Quell’obbligo di esprimere che ogni individuo onesto deve sentire profondamente ed ineluttabilmente.
 Questo obbligo di esprimere si accompagna, però, ad una scoperta di annichilente valore; la scoperta dell’illogicità della conversazione di tutti i giorni. La scoperta dell’impossibilità degli uomini di comunicare conversando. La scoperta che la parola si è trasformata nello strumento primario per l’incomprensione umana. La constatazione che la verità e la parola hanno imboccato, da tempo, sentieri divergenti. Ecco, allora, che riscopro la saggezza trascendente insita nei silenzi di Zi’ Nicola e il profondo giudizio che questi dava del resto dell’umanità, con i suoi sputi su di essa.
Noi uomini, della verità, abbiamo perso le tracce. Noi miseri, meschini, egoisti, dediti proditoriamente alla parola privata della verità. Alla menzogna. Ad essa ed ai suoi opulenti frutti innalziamo templi e con essa ingrassiamo i nostri tesori.

 La parola fonda il suo potere su convenzioni basate sulla falsità, sull’illusorietà, su assiomi infingardi che le permettono di perpetuarsi. Così le stelle divengono fisse e l’informità celeste diviene una sfera.
 Così la morte si trasforma in vita eterna e il dolore in un viatico per i Campi Elisi.
“Die Wahrheit! Schwärmerischer Wahn eines Gottes! Was geht die Menschen die Wahrheit an! Und wo ist sie in? Ein verflogener Traum, weggewicht aus den Mienen der Menschheit, mit anderen Träumen!”
La verità! Esaltata follia di un dio! Cosa importa agli uomini la verità! E dov’è finita? Un sogno svanito, spazzato via con altri sogni dalla faccia dell’umanità!

Nietzsche, prima di Beckett, riduce a zero le speranze di poter riutilizzare la parola come strumento di riunificazione.
 Cosa ci rimane, allora? Il silenzio?
Ma come possiamo esonerarci da quell’obbligo di esprimere che “percorre l’immobilità”, che dà voce al silenzio che ci ammalia e che rischia di confinarci in regioni, sempre più lontane dagli “altri”? Quell’obbligo che ci impone moralmente di condividere il dolore che non riusciamo ad eliminare.
Quale altra scelta è lasciata al nostro desiderio di partecipare. In quale modo possiamo dar voce al disgusto che proviamo di fronte ai poteri saprofiti, che si nutrono e prosperano sulla distruzione e la morte.
Come non distaccarci dalla sofferenza che ci circonda. Come continuare a manifestare la propria contrarietà alla deriva morale a cui ci stanno condannando? Come contrastare un potere che vorrebbe consentire, a tutti noi miseri umani, la democratica scelta tra imbecillità o silenzio. 
Nel tragico e feroce banchetto, imbandito con le carni dei miti e dei mansueti, il nostro silenzio viene rotto solo dai lamenti.
 E noi, perdiamo la voglia di parlare. Scopriamo l’illogicità della conversazione di tutti i giorni.
 Scopriamo l’inganno della parola e i limiti della comunicazione attraverso di essa.
Ma il silenzio è così profondo, da tenerci svegli l’intera notte.

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