Della vita e del nulla silente

Alcuni anni fa decisi di recarmi dal mio medico per una normale visita di controllo. Non avevo particolari disturbi, ma ero solito, periodicamente incontrarlo per farmi rassicurare sul mio corretto stato di salute.
Non avrei mai immaginato che quella visita avrebbe cambiato completamente la mia vita.
Il mio medico, senza grandi cautele, mi diede la notizia che avevo contratto un virus che uccide il 100% delle persone infettate. La notizia era di quelle che troncano il respiro e tagliano le gambe. E spesso modificano il corso dell’esistenza.
Quando mi vide adagiato su una sedia il medico, peraltro un amico, aggiunse anche, con un po’ più di cautela e di partecipazione empatica, che il virus, purtroppo, era uno di quelli che si modificano talmente in fretta, da non permettere alcuna previsione su come si svilupperà nel prosieguo della malattia.
Avrebbe potuto restare latente per molti anni, anche per decenni, o uccidermi nel giro di un’ora. Avrebbe potuto provocarmi un infarto, un colpo apoplettico, una miriade di forme di cancro. Perfino la demenza. Avrebbe potuto portarmi addirittura al suicidio. Nel suo stadio terminale avrebbe potuto assumere le forme più svariate, senza alcuna limitazione.
Nessuna delle strategie che avrei potuto mettere in atto per contenerlo (come una dieta particolare o il riposo assoluto) sarebbe stata efficace.
Insomma, ero certo di dover morire, pur vivendo con il solo obiettivo di tenere sotto controllo gli sviluppi del mio virus, in quanto non avrei potuto contare su cure efficaci. Peraltro mi confermò che il decadimento del mio corpo era già in corso.
Ebbene, potevo morire in qualsiasi momento e non potevo fare nulla per impedirlo. Il mio stato d’animo era di grande prostrazione e di profonda infelicità di fronte ad una rivelazione di così ferale natura.
Tornato a casa, prima di fare partecipe alcuno della mia angoscia, rivelando quanto mi aveva diagnosticato il medico, volli meditare profondamente sulle parole che erano suonate per me come una irrevocabile condanna a morte.

Sono certo che la maggior parte delle persone riterrebbe un quadro come quello prospettatomi dal mio medico, quanto di più terribile possa accadere ad un individuo.
Ma chi, dopo attenta riflessione, potrebbe credere che ci troviamo di fronte a qualcosa di veramente nuovo ed inaspettato? Valutiamo con attenzione il senso delle parole con le quali il medico ha descritto la mia tremenda patologia.
L’inevitabilità della morte non è forse una prognosi in tutto e per tutto simile a quella sopra descritta? La vita stessa non ha tutte le caratteristiche di questo nostro ipotetico virus? Potremmo morire in qualsiasi momento. Potremmo persino non vivere abbastanza a lungo per scrivere o leggere la fine di questo paragrafo. Ma non è tutto.
Ad un certo punto, nel futuro, moriremo certamente. Non c’è ombra di dubbio su questo. Se essere preparati a morire comporta sapere quando e dove ciò accadrà, c’è da scommettere che nessuno di noi sarà mai sufficientemente preparato.
Non solo siamo destinati a morire e ad abbandonare questo mondo, ma siamo destinati a farlo in modo tanto repentino che tutto ciò che ha una qualche rilevanza nel presente, tipo i rapporti personali, i progetti per il futuro, gli hobby e tutto ciò che si possiede, in quel momento, sembrerà del tutto banale.
Se tutte queste cose, proiettate in un vitalistico futuro, sembrano essere le grandi e fondamentali conquiste della nostra esistenza, la morte prova che non lo sono affatto. Quando un evento qualunque verrà ad interrompere la nostra vita, nel bilancio finale vi saranno ben poche conquiste. Forse, non ve ne sarà alcune che potremo menzionare. Sicuramente, nessuna a cui potremo restare attaccati.
E, se ciò non fosse già di per sé sufficientemente umiliante, possiamo aggiungere che la maggioranza di noi, prima di morire, soffrirà di una tacita confusione, quando non di un’infelicità profonda, dovuta ai rapporti, mai completamente chiariti, nella loro dinamica servo-padrone, tra noi e ciò che possediamo.
Amiamo, com’è giusto, la nostra famiglia e gli amici. Siamo terrorizzati all’idea di perderli, senza comprendere che la dinamica sarà l’esatto inverso: saremo noi a privare loro di qualcosa.
Eppure, in ultima analisi, non siamo neppure liberi di amarli, anche solo nel breve periodo in cui le nostre vite si incrociano.
Siamo troppo impegnati ad occuparci del nostro ego e dei suoi smodati bisogni. Siamo perennemente in balia, come un piccolo wagneriano Vascello fantasma, delle onde e dei venti nel mare dell’esistenza, alla ricerca, come il maledetto Olandese volante, di una persona che ci redima dal nostro peccato mortale: la volontà di possesso.
Come Freud e i suoi successori hanno continuamente sottolineato, ognuno di noi è combattuto e guidato da necessità contrapposte: da una lato le onde che ci fanno sentire parte di un’immensità condivisa e dall’altro i venti, che esaltano le nostre individualità e l’esigenza perenne di dare soddisfazione ai nostri smodati appetiti.
Confonderci col mondo e perderci, nel “tutto umano” che ci circonda o ritirarci nella fortezza della nostra individualità. Identificarci o opporci a qualsiasi omologazione. Deidentificarci o renderci riconoscibile agli “altri da noi”?
Ciascun impulso, se portato agli estremi, sembra condannarci all’infelicità. Siamo terrorizzati dalla nostra insignificanza in quanto uomini e molto di quello che facciamo nella nostra vita costituisce il tentativo di tenere a bada questa paura. Di acquietare la sottile angoscia che ci pervade costantemente.
Anche se tentiamo di non pensarci, in pratica, l’unica vera certezza della nostra vita è che un giorno moriremo. Lasciandoci tutto alle spalle. Un “Tutto” destinato a divenire “Nulla”.
Eppure, per la nostra mente, è quasi impossibile credere che sia così.
La nostra percezione della realtà sembra escludere il fatto che moriremo.
Mettiamo in discussione l’unica cosa assolutamente certa.

L’idea della morte ci terrorizza. Noi; animale infelice. Unico ad avere coscienza della propria mortalità. Unico ad aver sublimato la propria infelicità, nel potere di distribuire dolore e di distruggere altre vite.
Perché mai il mondo dovrebbe sopravviverci?
Alla morte abbiamo elevato altari. Immensi e sempre ricoperti di sangue.
Per lei abbiamo compiuto sacrifici, offrendo spesso altre vite in cambio di quella che ci appare preziosissima e che ci appartiene. Per esorcizzare la paura che essa ci incute e che ci riempie di terrore abbiamo creato simboli, dei, culti, religioni, preghiere. Mondi, inframondi, ultramondi, oltremondi. Li abbiamo riempiti di delizie e di castighi, ma abbiamo conferito loro il valore di “eternità”. Abbiamo talmente riempiti di valori questi mondi da avere svuotato quasi completamente quello in cui trascorriamo il breve lasso di tempo della nostra permanenza su questo pianeta.
Questa nostra fugace permanenza. Così faticosa. Talvolta dolorosa.
Un breve urlo tra due silenzi.
Eppure questo spazio che, anche sonoramente, è racchiuso tra un urlo ed un lamento, oppresso dai due silenzi eterni che lo incorniciano, ci offre la metafora per considerare la banalità del nostro rimpianto. Così tanto ci angoscia il nulla eterno che seguirà la nostra morte, così come tanto poco ci angoscia il nulla cosmico che ha preceduto la nostra venuta al mondo. Il nulla precedente non ci angoscia affatto; il nulla seguente ci sgomenta e ci atterrisce. Ma cosa distingue il prima ed il dopo. Cosa rende differente il nulla che ci precede da quello che ci segue.
Prima non sapevamo di doverci essere e dopo prendiamo coscienza che, ad un certo punto, non ci saremo più. Allora sperimentiamo il pensiero come dolore. L’idea dell’abbandono della vita, come sofferenza. La vita stessa viene oppressa e sminuita, nel suo valore, dal senso della sua caducità. Ah, misero Ego infelice.

Perché non dare invece, un valore ancora più grande a questo lasso di tempo concessoci dalla natura, in virtù soprattutto del fatto che esso sia limitato e conchiuso?
O non è forse il “desiderio di possesso” quello che ci tiene così legati a questo mondo, da non volerlo abbandonare per nessuna ragione. L’aver gustato le “delizie terrene” ci induce ad abbarbicarci, come scimmiette golose, all’albero della vita, per non rinunciare ai suoi frutti.

Alcune religioni hanno formulato situazioni paradossalmente idilliache per chi abbandona, unicamente assecondando la volontà del loro Dio (qualunque esso sia), questo mondo. Vino, latte-miele, salumi, vergini a decine di migliaia, delizie di ogni genere, corpi che si risveglieranno gloriosi, nella loro condizione migliore. Ogni cosa proibita in vita, diverrà premio per la vita ultraterrena.
Viene, quindi, offerto un indennizzo, per tutto ciò a cui si è costretti a rinunciare.
Ma tutto questo si infrange contro il pragmatismo, incredulo e blasfemo, che ci vede lasciare il poco certo per il molto incerto, sempre a malincuore.
“Ci vuole tutta la vita per imparare a vivere e, quel che più parrà strano, ci vuole tutta la vita per imparare a morire”, ci ricorda Seneca.
La morte non esiste” ci ammonisce Epicuro, poiché esiste solo ciò che è sperimentabile in vita; e la morte non lo è.
Esiste solo la vita, con le sue miserie, le grettezze quotidiane, l’egoismo vile, l’ingordigia prettamente umana. Un dissennato modello di autodistruzione che nasce dalla disillusione e dall’insoddisfazione ed ottiene, come ricompensa, noia, infelicità e poi, di nuovo, desiderio, in un’inarrestabile vortice di miserabilia.
Ma esiste anche la vita piena di ricchezze. Riflessione, pensiero, compassione, solidarietà, altruismo, coerenza, comprensione, studio, attenzione, ricerca, dedizione, volontà. E amore. E bellezza. E ordine. E arte. E attenzione per tutto quanto ci circonda. E responsabilità personale. Unica ed ineludibile.
E la liberazione da questo ciclo insensato. Ma una liberazione ottenibile in vita, formandosi alla schopenaueriana volontà di non volere. La redenzione, come per Holländer, verrà allora accompagnandosi alla liberazione dalle catene del folle desiderio.
Si nascerà per l’unica e vera nascità; quella che ci impedirà veramente di morire.
La differenza sarà allora tra chi nasce e muore con consapevolezza e coraggio e chi, per il terrore di morire, non sarà mai nato.
In una frase Cioran, con la causticità dei suoi straordinari aforismi, sintetizzava il senso della vita e della morte con queste parole: «Un tempo, davanti a un morto, mi chiedevo: “A che gli è servito nascere? Ora mi faccio la stessa domanda davanti ad ogni vivo”».
Trovare un senso a questa nostra “frase tra due silenzi” è difficile. Per tanti, impossibile. Molti balbetteranno frasi incomprensibili. Alcuni biaschicheranno idiozie. Altri si dedicheranno al turpiloquio. Molti alla bestemmia. Moltissimi alla menzogna.
Altri decanteranno la propria insostituibile grandezza. Altri esporranno malamente la propria stoltezza.
In questa ridda di esseri vocianti e di frasi affidate ad un unico soffio vitale, anche noi potremo pronunciare la frase che riterremo più opportuna.
Nulla potrà impedirci di pronunciarla quella frase. E se poi sarà posta come epitaffio sulla nostra umile lapide, essa assumerà il valore che ebbe per Pablo Neruda, quando, al termine del suo percorso, sussurrò, a chi restava affranto dal dolore: “Confesso che ho vissuto”.

10 Responses to Della vita e del nulla silente

  1. giorgiotagliabue says:

    Un abbraccio pieno di affetto dal “piccolissimo” maestro Tagliabue.
    NB. Sostituirei “decadenza” delle facoltà mentali” con “sublimazione” delle stesse. Sappiamo ancora così poco dell’universo sconfinato che sta dentro di noi.

  2. Ippolito Tramail says:

    Caro Tagliabue, la ringrazio per la risposta. Quale ammirazione nel saperla stilita dei tempi moderni, ritirato in un eremo, distante dal logorio cui la vita ci sottopone. Niente che abbia a che fare con memorie calindriane, ça va sans dire, ché la condizione di cui si parla è altro, una riflessione ben più profonda lo sottende.
    E si spera che il nostro “stilitismo” ci porti a vedere la Wasted Land della vita in maniera più alta e distaccata.
    Cordialmente, Ippolito Tramail

  3. Augusto Misolini says:

    Grandissimo Maestro Tagliabue,
    appuro con incontinente gioia e orgoglio che sono stati riabilitati quei commenti che, immagino con incommensurabile dolore – interiore e fisico -, fu costretto a bandire per via delle continue incursioni pubblicitarie, putrido sintomo di questa malata società.
    Auspico possa riprendere quel Simposio di Cultura che ben sembrava avviato in avvio di anno, prima del mio ricovero, anche con il savio Tomin e il nuovo compagno Tramail; pur in un clima, per quanto mi riguarda, di decadenza delle facoltà mentali.
    Tragico destino di ogni uomo, come molto altro…

    Con Sincera Stima,
    Suo Devoto Augusto.

  4. giorgiotagliabue says:

    Gentilissimo Ippolito, il mio silenzio ha ragioni talmente profonde da sfuggire anche alla mia coscienza. È un silenzio che non vuole suonare arrogante, anzi esso si configura come il frutto più maturo di una strana quanto pericolosa consapevolezza. Forse un misto di pessimismo schopenaueriano e di taoismo alla Zuang Ji. Non lo so. Non lo saprò. E so sempre meno.
    Negli ultimi mesi mi sono dedicato allo studio molto approfondito dell’opera di Richard Wagner. Essa, l’insegnamento e alcuni impegni di lavoro (e anche un eremo nel quale mi ritiro periodicamente) mi stanno assorbendo molto. Sento comunque il limite assoluto delle parole, che non mi impediranno, comunque, di far risuonare la mia flebile voce, quando il mio spirito ne sentirà il desiderio.
    Con sincero affetto per la cordiale vicinanza,, le invio un abbraccio.

  5. Ippolito Tramail says:

    Tagliabue, da tempo non leggo suoi interventi nuovi! Ci faccia sapere come proseguono i suoi pensieri.
    Cordialmente, Ippolito Tramail

  6. giorgiotagliabue says:

    Come salutare, caro Augusto, questo suo ritorno in mezzo ai “cosidetti vivi”? Questa sua benvenuta riemersione dall’Ade, nel quale, suo malgrado, era calato, mi allieta. Novello Ulisse, in superficie, ritrova tutti coloro che, contrariamente alla sua, soffrono di una sindrome dannosissima per l’umanità intera: si credono vivi. E, ahimé, non sanno di non essere neppure nati.
    La mia malattia, invece, (invero molto più banale della sua) è quella comune a tutti gli esseri umani, cui riesco a far fronte, giovandomi del resistentissimo “filo di Arianna” dell’arte e del pensiero, che mi fanno ritrovare sempre la via per uscire dai labirinti in cui, molto frequentemente, mi introduco.
    Mi auguro che ora si trattenga a lungo in superficie. Questo mondo, anche se non è il migliore di quelli possibili, sicuramente si arricchisce della presenza delle persone come lei. Non impoveriamolo ulteriormente.

  7. Augusto Misolini says:

    O sublime Maestro Tagliabue,

    Soltanto ora, dopo tormentati e tortuosi mesi, dopo torride notti di convalescenza in ospedale che non so quantificare, nè tantomeno le mie labbra tremanti riuscirebbero a qualificare, riemergo da uno stato di incoscienza che mi lascia più che mai scosso, turbato e confuso.
    Quale brivido nel leggere – tornato con gioa eterna alla possibilità di riaffacciarmi su questo superbo, sibillino diario intellettuale – della sua ignota malattia, quasi a rappresentarmi una sovrapposizione, ahi quanto affascinante, ahi quanto inquietante, di storie e personalità.
    Ebbene, soffro anch’io di un disgraziato malanno non meglio qualificato come Sindrome di Cotard, che mi porta alla saltuaria (e non salutare) ma vivida convinzione di essere morto e privo di consistenza, ed altri disturbi neurologici che mi portano in momenti di incoscienza a comportamenti poco qualificabili….dei quali fin da subito mi scuso se dovessi quivi incorrervi.
    Un altro, ennesimo, profondo e tragico elemento ci lega, o adorato Maestro…quasi ad individuare un destino comune, un disegno ed una volontà superiore – alla quale con renitenza ho nei miei lunghi anni creduto – che ha fatto incontrare le nostre sperdute (nel nulla) esistenze, e forse altro……

    Augusto Misolini

  8. giorgiotagliabue says:

    Caro Ippolito,
    perdoni la brevità della risposta.
    Per prima cosa mi permetta di ringraziarla per il suo intervento, che fornisce alle mie parole un valore che altrimenti non avrebbero. Se fossi certo che le parole potessero risolvere, anche in minima parte, i problemi di questa umanità, infelicemente colpevole, mi prodigherei a produrne la maggiore quantità possibile.
    Ma, ahimé, io sono un umile minatore che scende, ogni giorno della propria esistenza, in un’oscura miniera e ne esce, a notte inoltrata, dopo aver scavato per l’intera giornata, con qualche prezioso motivo di conoscenza-sofferenza in più.
    Nessuno di noi è un intero. Siamo solo una piccolissima frazione che cerca di ritrovare la propria posizione nell’equazione fondamentale dell’esistenza.
    Grazie per le sue parole, che spero mi accompagnino ancora.

  9. Ippolito Tramail says:

    Caro Tagliabue,
    mi permetto di inserirmi nella discussione.
    Non voglio farle perdere del tempo prezioso raccontandole di ciò che mi porta a seguire le sue pagine: mi limito solo a segnalarle che mi avvicina alle sue riflessioni sulla presenza del nulla nella nostra vita una teoresi dominata dalla riduzione del valore dell’individuo e dell’esistenza umana in genere.
    Vede, dopo il mio recente pensionamento riguardo retrospettivamente la mia esistenza e constato come l’alterità abbia sistematicamente soppresso le mie spinte individuali, portandole di volta in volta ad adeguarsi al sacrificio in nome della famiglia prima, e dello Stato poi. Non dello Stato hegeliano, ché sarebbe stata troppa grazia, bensì della più prosaica Italia repubblicana: e io, valdostano, sono stato costretto a servire il mio paese nelle sperdute regioni del meridione. Le lascio immaginare l’alienazione che può derivare dal vivere a Vallo della Lucania, sperimentando come le barzellette sui carabinieri siano amara realtà, e non humor nero come ci si vuol far credere.
    Ciononostante, ho cercato di sfuggire all’omologazione culturale – che eufemismo! – dell’ambiente in cui mi trovavo a lavorare e vivere mio malgrado, mantenendo viva la spinta maieutica che mi spingeva ad interrogarmi sull’esistenza.
    La mia non è stata un’esistenza felice, sempre sospesa a metà tra la richiesta di omologarmi all’alterità e quella di mantenere vive le mie domande di fondo. Sono approdato a crisi violente, da cui sono parzialmente uscito solo con lunghi periodi di trattamento farmacologico. Dico parzialmente perché (come colgo del resto dai suoi interventi, caro Tagliabue) in realtà il nostro essere al mondo è dominato dal farsi nulla del Tutto, dal progressivo ersterben, per citare una felice concrezione verbale di un suo intervento.
    In tutto ciò, leggere i suoi contributi mi fa pensare che non sono solo al mondo, nel momento in cui mi pongo questi interrogativi pressanti. Come ebbe a dire una raffinata poetessa italiana degli ultimi anni, Patrizia Valduga, “sostituivo il Tavor con D’Annunzio”. Probabilmente non sostituirò il Tavor, che ahimè è ormai una stampella irrinunciabile, ma probabilmente, sentendomi meno solo grazie ai suoi interventi, potrò ridurne minimamente le dosi. Sono felice nel leggere che qualcuno condivide, fosse anche solo in parte, la mia ontologia, e di questo la ringrazio.
    Ippolito Tramail

  10. Armando Tomin says:

    Gentile Ospite,
    debbo credere di poter intuire la diagnosi del Suo disturbo. Benché il suo riserbo vada rispettato senz’altro, mi permetto di pensare ad un par di possibilità che senz’altro Lei sarà libero di non considerare affatto.
    Invero la concomitanza è mirabilmente fatale. Il nostro comune amico, Augusto, è stato ricoverato per un improvviso accesso di un periglioso morbo che porta il titolo di sindrome di Cotard. Proprio così! Egli, già conscio del verme interiore, è stato colpito da un attacco gravissimo di questo disturbo, che, essendo d’ordine neuronale, lo spinge a figurar se stesso come già morto. Egli crede fermamente di non esister più affatto. Il suo stato va vieppiù migliorando, e, venendo magari dimesso dalla sua ospedaliera detenzione (altresì per continuare sulla via della coercizione carceraria farmacologica, come agli arresti domiciliari, almeno a casa propria, finalmente) e dovendo trascorrere un periodo di riposo, può darsi che, se Lei lo sollecitasse esplicitamente, si possa sentire invogliato a tornare alle sue informatiche letture. La prego di credere che ne sarebbe giovato…
    Quanto a Lei, mi sento di dire che il Suo disturbo è d’altra natura. Mi sovviene il nome del “Delirium sufflavi maris”, ma potrei errare. Vivere, come entrambi sabbiamo, è errare.
    Ringraziando anticipatamente
    prof. AT

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